Commento al vangelo della XXVIII Domenica TO/A - 11 ottobre 2020
Dal Vangelo di Matteo (22,1-14)
In quel tempo, Gesù, riprese a parlare con parabole [ai capi dei sacerdoti e ai farisei] e disse:
«Il regno dei cieli è simile a un re, che fece una festa di nozze per suo figlio. Egli mandò i suoi servi a chiamare gli invitati alle nozze, ma questi non volevano venire.
Mandò di nuovo altri servi con quest’ordine: Dite agli invitati: “Ecco, ho preparato il mio pranzo; i miei buoi e gli animali ingrassati sono già uccisi e tutto è pronto; venite alle nozze!”. Ma quelli non se ne curarono e andarono chi al proprio campo, chi ai propri affari; altri poi presero i suoi servi, li insultarono e li uccisero. Allora il re si indignò: mandò le sue truppe, fece uccidere quegli assassini e diede alle fiamme la loro città.
Poi disse ai suoi servi: “La festa di nozze è pronta, ma gli invitati non erano degni; andate ora ai crocicchi delle strade e tutti quelli che troverete, chiamateli alle nozze”. Usciti per le strade, quei servi radunarono tutti quelli che trovarono, cattivi e buoni, e la sala delle nozze si riempì di commensali.
Il re entrò per vedere i commensali e lì scorse un uomo che non indossava l’abito nuziale. Gli disse: “Amico, come mai sei entrato qui senza l’abito nuziale?”. Quello ammutolì. Allora il re ordinò ai servi: “Legatelo mani e piedi e gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti”.
Perché molti sono chiamati, ma pochi eletti».
Commento a cura di Elisabetta Corsi da Fermo
Ὡμοιώθη ἡ βασιλεία τῶν οὐρανῶν ἀνθρώπῳ βασιλεῖ (omoiòthè e basiléia tòn uranòn anthròpo basiléi): “Simile è il regno dei cieli ad un uomo-re”. La precisione semantica di questa prima frase delinea con mirabile pregnanza la sostanza dell’analogia che Gesù traccia per ricomporre il nostro cielo interiore al Cielo divino. Il celeste spazio della coscienza ha un Re, intorno al quale si costituisce un regno che non ha la sua sede in un effimero potere terreno – inutile e vanitoso possedimento del mondo –, ma che si forma nell'invisibile spazio dello spirito.
Per amore nei confronti della creatura-uomo, il Re non rimane nella sua sede celeste, ma discende e si fa uomo e diventa un ἀνθρώπῳ βασιλεῖ (anthròpo basilèi) un uomo-re. Incarnando la sua sostanza divina nella carnalità umana, Dio-Re ricostituisce il fratturato legame che lo separa dall'uomo, strappando τὸ ὄνειδος τοῦ λαοῦ (tò òneidos tù laù), “il disonorevole velo del popolo”. Il rapporto fra Dio e il suo popolo è separato da una discrepanza che non permette all’uomo di vedere il suo Re e di riconoscere in Lui il proprio Padre. Solo per mezzo del Figlio, l’uomo, in quanto figlio, riconosce l’unica vera relazione che può unirlo all’amore del Padre, rimuovendo ciò che lo distanzia ed estranea dall’azione divina.
Il re prepara γάμους τῷ υἱῷ αὐτοῦ, (gàmos tò uiò autù) “a suo figlio le nozze”. La sposa del figlio del re, ad una prima lettura non precisata, è in realtà menzionata in tutto il passo evangelico. Infatti, il re ἀπέστειλεν τοὺς δούλους αὐτοῦ καλέσαι τοὺς κεκλημένους εἰς τοὺς γάμους (apèsteilen tùs dùlos autù kalésai tùs keklémenous eis tùs gamùs), letteralmente “mandò i suoi servi a chiamare i chiamati alle nozze”. Dapprima, Dio chiama l’Israele biblica e spirituale del “popolo eletto” - o meglio, il “popolo chiamato” che, però, “non vuole giungere” e che, anzi, al secondo richiamo del re e al compimento del sacrificio nuziale, insulta ed uccide gli schiavi, martiri-testimoni dell’amore di Dio.
L’invito del Re, poi, si estende: i “chiamati” divengono πάντας οὓς εὗρον (pàntas ùs èuron), letteralmente “tutti quanti (gli schiavi) trovano”, degni o indegni del banchetto nuziale. Costoro divengono ἀνακειμένων (anakeiménon), letteralmente “coloro che si sdraiano per cibarsi delle vivande del banchetto”, del banchetto eucaristico. Ma lo sguardo attento del re si posa su un “uomo non rivestito del vestito nuziale”. Interrogato sul perché di una tale mancanza, ὁ δὲ ἐφιμώθη, (o dè efimòthe), “l’uomo si azzittisce forzatamente”, letteralmente, per effetto della “museruola” che gli copre la bocca. Come conseguenza di una forzata prigionia, lo spirito ammutolisce di fronte alla chiamata e perde la forza di dire “sì” allo sposo celeste. Senza l’abito nuziale, “svestita di Cristo”, l’anima, da “chiamata” non può divenire “scelta”, non può divenire eklekté, parte viva, con la sua propria vita, della vita dell’ekklesìa, la vera eterna sposa del Cristo.
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