“Dai, smettila di piangere, ormai sei un ometto! I grandi non piangono e tu
sei grande, vero?”
Di sicuro avete sentito tutti queste parole da bambini, dopo aver versato
qualche lacrimuccia per un ginocchio sbucciato o aver litigato con un
amichetto. Il pianto potrebbe essere definito come un incontenibile moto
dell’animo: in quell’attimo il cuore è così colmo che non può fare a meno di
esternare quell’eccesso di emozione o rischia di scoppiare. E non si parla
solo di emozioni negative: vi è capitato, anche solo per un attimo, di essere
così felici, ma così felici, da non riuscire a trattenere le lacrime nate lì,
sul vostro occhio, così, all’improvviso?
L’uomo è fatto per provare sentimenti, emozionarsi, vivere (in un certo senso
sono sinonimi!), e quando si continua a versare acqua sul vaso già pieno
quest’ultima uscirà fuori. A pensarci, piangere è la prima azione che compiamo dopo la nascita: un bel
respiro, inauguriamo i polmoni nuovi di zecca riempiendoli per bene d’aria e…
“WAAAAH!” grossi lacrimosi ci rigano le guance finché non ritorniamo al sicuro,
protetti come un pulcino sotto un’ala, tra le braccia della mamma, ancora
spaventati di fronte a una grandissima sfida che ci viene proposta e ancora non
comprendiamo.
Ma se abbiamo la mamma accanto, non abbiamo paura di nulla.
Ecco, in un certo senso Dio è la nostra mamma: se ci fidiamo completamente di
Lui, senza riserve, mettendo la nostra vita completamente nelle Sue mani, Lui è
lì, ci sostiene, ci sorregge nelle difficoltà, ci offre tutta la sua
protezione, e riusciamo ad affrontare anche i momenti più bui della nostra vita
con coraggio, sentendo la Sua mano che ci sostiene.
Oppure possiamo comportarci da “adolescente ribelle” che, troppo orgoglioso per solo pensare di chiedere aiuto, chiude le porte in faccia alla
madre, convinto di riuscire a superare ogni problema da solo, di non avere
bisogno di nessuno e bastare a sé stesso, padrone della sua vita e del mondo
che lo circonda.
È qui che l’uomo si spezza. Siamo talmente convinti di riuscire a portare a
compimento qualunque cosa ci proponiamo, di poter raggiungere ogni obiettivo
unicamente con la nostra forza di volontà, che il fantasma del fallimento da
solo ci spaventa da morire. Se, anche solo per un attimo, si affaccia nella
nostra mente l’idea di non farcela, essa non ci abbandonerà più e continuerà a
roderci come un tarlo insistente, lasciando il nostro castello di false
certezze instabile e pieno di buchi. Ma non arriveremo mai ad ammettere di non
essere in grado di arrivare fino in fondo, non diremo mai ad alta voce di avere
bisogno di una mano amica che ci trascina quando la salita si fa più ripida.
Nella nostra superbia ciò ci ferirebbe più della sconfitta stessa.
È questa la ragione per cui ci vergogniamo così tanto del pianto: la nostra
paura, la nostra inadeguatezza prendono forma, diventano materia palpabile;
siamo costretti ad ammettere la nostra piccolezza, la nostra vulnerabilità,
toccandole con mano. Cadono tutte le maschere, l’anima si mette a nudo. Dio è
Onnipotente, l’uomo no. Eppure ha il coraggio di negare la sua umanità. È fatto
di emozioni, ma le nasconde. Le vede come una debolezza, ma sono la sua
essenza.
Sono parte così integrante di noi che Cristo stesso nel “farsi carne” non
se ne priva ma le vive fino in fondo: ama il giovane ricco, ha paura nell’orto
degli ulivi, scoppia in pianto (Giov 11,35) di fronte alla tomba di
Lazzaro. Cosa gli sarebbe costato togliersi questo pesante fardello? Dobbiamo essere umili come la peccatrice ai piedi di Gesù, riconoscere il
nostro essere imperfetti e trasformare le nostre lacrime di dolore in
preghiera, la nostra debolezza in occasione di crescita e rafforzamento della fede e dell’amore in Colui che così tanto ci ama da perdonarci tutto!
E pieni di questo amore, non sarà più facile riuscire a perdonare anche le
lacrime e debolezze altrui? Perdono ed amore sono in realtà allo stesso tempo
causa ed effetto l’uno dell’altro: “Le sono perdonati i suoi molti peccati perché ha molto amato. Invece quello a cui si perdona poco, ama
poco.” (Luca 7,47)
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