di fra Damiano Angelucci
Dal Vangelo secondo Luca ( Lc 24, 13-35 ) - III° Domenica di Pasqua
Ed
ecco, in quello stesso giorno [il primo della settimana] due dei [discepoli]
erano in cammino per un villaggio di nome Èmmaus, distante circa undici
chilometri da Gerusalemme, e conversavano tra loro di tutto quello che era
accaduto. Mentre conversavano e discutevano insieme, Gesù in persona si
avvicinò e camminava con loro. Ma i loro occhi erano impediti a riconoscerlo...
COMMENTO
Un giornalista e fervente cattolico
di Cotonou (Repubblica del Benin), un giorno mi espresse la sua preoccupazione
per i tanti battezzati che passavano o ritornavano nelle numerose sette
esistenti. Tante persone si facevano battezzare e altrettante, a suo dire, ne uscivano.
In quell’ambiente la sofferenza fisica, la penuria di mezzi per curarsi, la
ricerca di benessere in effetti spinge spesso a delle scorciatoie di questo
tipo nell’aspettativa di trovare la religione migliore e che aiuti meglio a
risolvere i problemi più urgenti.
Se è lecito domandarsi cosa siano venuti a
cercare nella Chiesa di Cristo coloro che se ne distaccano così rapidamente,
tuttavia da parte nostra occorrerà domandarsi se abbiamo saputo imitare la
pedagogia del nostro Maestro così ben delineata nel racconto dei discepoli di
Emmaus. Quali mezzi e quanto tempo impieghiamo noi per impersonare quel Gesù
risorto che si fa accanto a questi due uomini delusi in cammino verso Emmaus?
Gesù ha fatto qualcosa di molto semplice: si è fatto raccontare la storia di
quegli ultimi giorni, la storia di quegli straordinari eventi quale essi stessi
l’avevano vissuta.
Il Vangelo ci dice che i loro occhi non erano stati capaci
di riconoscere Gesù, che avevano il volto triste, che fino a qualche momento
prima avevano sperato che fosse stato proprio Gesù a liberare Israele. Gesù
ascolta pazientemente e poi comincia a spiegare loro tutto ciò che nelle scritture
lo riguardava, ed è così che il cuore dei due discepoli inizia a
scaldarsi, i loro occhi tornano a vedere, fino alla sera quando lo riconoscono
mentre spezza il pane.
Credo che questo brano sia meno un rimprovero
dell’incredulità dei due discepoli delusi, per quanto Gesù li definisca “cuori
senza intelligenza e lenti a credere”, e più un esempio per tutti noi
cristiani, chiamati ad essere testimoni di Gesù. La verità ha bisogno di
relazione per comunicarsi, ha bisogno di ascolto. Noi frati, preti e cristiani
in genere impegnati nell’evangelizzazione, dovremmo imparare a predicare un
minuto per ogni 10 minuti di ascolto.
In Benin come in tutti i luoghi del
mondo, immagino, l’annuncio cristiano ha bisogno di passare attraverso
una relazione di amicizia, di comunione, di dialogo. La dimensione relazionale
è di un’importanza cruciale. Ce lo ricorda anche Papa Francesco
nell’esortazione Evangilii Gaudium: “Ora che
la Chiesa desidera vivere un profondo rinnovamento missionario, c’è una forma
di predicazione che compete a tutti noi come impegno quotidiano. Si tratta di
portare il Vangelo alle persone con cui ciascuno ha a che fare, tanto ai più
vicini quanto agli sconosciuti. È la predicazione informale che si può
realizzare durante una conversazione ed è anche quella che attua un missionario
quando visita una casa. […]. In questa predicazione, sempre rispettosa e
gentile, il primo momento consiste in un dialogo personale, in cui l’altra
persona si esprime e condivide le sue gioie, le sue speranze, le preoccupazioni
per i suoi cari e tante cose che riempiono il suo cuore (127-128)”.
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