Ci
siamo soffermati nell’ultimo incontro su quella necessaria umiltà nella
preghiera che scaturisce dalla
consapevolezza del nostro peccato ed abbiamo visto che il figlio
perduto della parabola evangelica ritrova la sua dignità quando ritorna
alla casa del padre e viene rivestito dalla misericordia del padre: "l’orazione è questo: il luogo dell’incontro tra il
Padre e il figlio, l’abbraccio tra la misericordia e la miseria". Nel
vangelo troviamo un altro testo significativo in cui Gesù in maniera
diversa insiste su quest’aspetto: la parabola del pubblicano e del
fariseo: “Disse ancora questa parabola per alcuni
che presumevano essere giusti e disprezzavano gli altri: due uomini
salirono al tempio a pregare, uno era fariseo e l’altro pubblicano. Il
fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: O Dio ti ringrazio che
non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti,
adulteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte la
settimana e pago le decime di quanto possiedo. Il pubblicano invece,
fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si
batteva il petto dicendo: O Dio abbi pietà di me
peccatore. Io vi dico: quest’ultimo tornò a casa sua giustificato, a
differenza dell’altro, perché chi si esalta sarà umiliato e chi si
umilia sarà esaltato”(Lc 18, 9-14).
Il riferimento alla preghiera
del pubblicano, insieme a quanto troviamo in un
altro passo evangelico dove il cieco Bartimeo, grida per poter riavere
la vista: “Gesù , abbi pietà di me!”(Mc 10, 46-52), ha dato origine a
quella invocazione che si è sviluppata soprattutto fra i monaci
dell’Oriente cristiano, nella quale in maniera semplice
ed efficace si invoca il Nome di Gesù: “Signore Gesù Cristo, Figlio di
Dio, abbi pietà di me peccatore”. “Mediante questa preghiera il cuore
entra in sintonia con la miseria degli uomini e con la misericordia del
Salvatore. L’invocazione del santo Nome di
Gesù è la via più semplice della preghiera continua. Ripetuta spesso da
un cuore umilmente attento, non si disperde in fiumi di parole, ma
custodisce la Parola e produce frutto con perseveranza. Essa è possibile
«in ogni tempo», giacché non è un’occupazione
accanto ad un'altra, ma l’unica occupazione, quella di amare Dio, che
anima e trasfigura ogni azione in Cristo Gesù”(Catechismo Chiesa cattolica, nn°2667-68).
Concludendo
sul tema dell’umiltà nella vita di preghiera, riferisco ancora questa
testimonianza di un autore spirituale: “Ho approfittato delle vacanze
per far visita ad un prete
molto anziano che venero. Paralizzato, non lascia più la sua camera, ma
dalla sua poltrona contempla l’abside della sua cattedrale e prega
senza posa. Faccio fatica a definire l’impressione che provo in sua
presenza. È come se emanasse da lui una straordinaria
purezza che ti impregna. Purezza che emana da lui ma non è sua:
l’emanazione della Purezza di Dio attraverso un essere diventato
diafano. E mi domandavo ascoltandolo come fosse arrivato a questa
trasparenza. Una parola mi è venuta in mente: l’umiltà. Spesso
in effetti, fa allusione alla sua «miseria» con un accento di dolore
tranquillo, fiducioso, gioioso. La lettera nella quale mi dicevi:
«Preferisco non pensare troppo ai miei peccati, questo mi scoraggia», mi
era giunta il giorno prima; anche la tua frase mi
è tornata in mente durante la conversazione … e gliel’ho citata senza
fare il tuo nome, ovviamente. Ciò mi è valso un suggerimento molto
prezioso: «Guarda il pubblicano della parabola evangelica: egli è là
davanti a Dio, non osando alzare lo sguardo; si batte
il petto, non smette di ripetere: “Dio, perdona il peccatore che sono”.
È meravigliosamente umile. Ma in lui l’umiltà non è, come in molte
persone, una virtù in più di cui sono fiere. Semplicemente esprime a Dio
ciò che constata lungo tutto il santo giorno:
che egli è un peccatore. In una parola, è solo quello che il Signore
aspetta per ricolmarci: la conoscenza, la confessione, la condanna, il
dispiacere del nostro peccato.
Come san Paolo parlo del peccato al
singolare, cioè di quel male in noi dal quale derivano
i nostri vari peccati. È impossibile liberarsi del peccato, aderisce
alla nostra anima. Ma c’è di meglio che affliggersi e disperarsi. Meglio
da fare che nasconderci a Dio secondo l’esempio di Adamo dopo la sua
colpa, o domandare a Dio di allontanarsi, come
Pietro dopo la pesca miracolosa: è necessario presentarci al Signore
veri, nudi, mostrargli le nostre piaghe. E il peccato riconosciuto,
confessato, condannato, non è già più il peccato, ma solamente la
“miseria” che invoca la dolcissima misericordia del Padre.
Per il fatto che noi riconosciamo il nostro peccato, che lo chiamiamo
col suo nome, che ci svincoliamo da lui, che lo esponiamo allo sguardo
purificatore di Dio, ecco che non è più pericoloso, ecco che siamo
miracolosamente purificati. L’uomo che durante la
preghiera e nel corso delle ore, vive in questo atteggiamento di
confessione a Dio del proprio peccato, è un’acqua limpida dove si
riflette la purezza del cielo»”(Caffarel)
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