mercoledì 12 febbraio 2014

Umiltà e preghiera (3)

di fra Giuseppe Bartolozzi


Ci siamo soffermati nell’ultimo incontro su quella necessaria umiltà nella preghiera che scaturisce dalla consapevolezza del nostro peccato ed abbiamo visto che il figlio perduto della parabola evangelica ritrova la sua dignità quando ritorna alla casa del padre e viene rivestito dalla misericordia del padre: "l’orazione è questo: il luogo dell’incontro tra il Padre e il figlio, l’abbraccio tra la misericordia e la miseria"Nel vangelo troviamo un altro testo significativo in cui Gesù in maniera diversa insiste su quest’aspetto: la parabola del pubblicano e del fariseo: “Disse ancora questa parabola per alcuni che presumevano essere giusti e disprezzavano gli altri: due uomini salirono al tempio a pregare, uno era fariseo e l’altro pubblicano. Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: O Dio ti ringrazio che non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adulteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte la settimana e pago le decime di quanto possiedo. Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: O Dio abbi pietà di me peccatore. Io vi dico: quest’ultimo tornò a casa sua giustificato, a differenza dell’altro, perché chi si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato”(Lc 18, 9-14). 

Il riferimento alla preghiera del pubblicano, insieme a quanto troviamo in un altro passo evangelico dove il cieco Bartimeo, grida per poter riavere la vista: “Gesù , abbi pietà di me!”(Mc 10, 46-52), ha dato origine a quella invocazione che si è sviluppata soprattutto fra i monaci dell’Oriente cristiano, nella quale in maniera semplice ed efficace si invoca il Nome di Gesù: “Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, abbi pietà di me peccatore”. “Mediante questa preghiera il cuore entra in sintonia con la miseria degli uomini e con la misericordia del Salvatore. L’invocazione del santo Nome di Gesù è la via più semplice della preghiera continua. Ripetuta spesso da un cuore umilmente attento, non si disperde in fiumi di parole, ma custodisce la Parola e produce frutto con perseveranza. Essa è possibile «in ogni tempo», giacché non è un’occupazione accanto ad un'altra, ma l’unica occupazione, quella di amare Dio, che anima e trasfigura ogni azione in Cristo Gesù”(Catechismo Chiesa cattolica, nn°2667-68).

Concludendo sul tema dell’umiltà nella vita di preghiera, riferisco ancora questa testimonianza di un autore spirituale: “Ho approfittato delle vacanze per far visita ad un prete molto anziano che venero. Paralizzato, non lascia più la sua camera, ma dalla sua poltrona contempla l’abside della sua cattedrale e prega senza posa. Faccio fatica a definire l’impressione che provo in sua presenza. È come se emanasse da lui una straordinaria purezza che ti impregna. Purezza che emana da lui ma non è sua: l’emanazione della Purezza di Dio attraverso un essere diventato diafano. E mi domandavo ascoltandolo come fosse arrivato a questa trasparenza. Una parola mi è venuta in mente: l’umiltà. Spesso in effetti, fa allusione alla sua «miseria» con un accento di dolore tranquillo, fiducioso, gioioso. La lettera nella quale mi dicevi: «Preferisco non pensare troppo ai miei peccati, questo mi scoraggia», mi era giunta il giorno prima; anche la tua frase mi è tornata in mente durante la conversazione … e gliel’ho citata senza fare il tuo nome, ovviamente. Ciò mi è valso un suggerimento molto prezioso: «Guarda il pubblicano della parabola evangelica: egli è là davanti a Dio, non osando alzare lo sguardo; si batte il petto, non smette di ripetere: “Dio, perdona il peccatore che sono”. È meravigliosamente umile. Ma in lui l’umiltà non è, come in molte persone, una virtù in più di cui sono fiere. Semplicemente esprime a Dio ciò che constata lungo tutto il santo giorno: che egli è un peccatore. In una parola, è solo quello che il Signore aspetta per ricolmarci: la conoscenza, la confessione, la condanna, il dispiacere del nostro peccato

Come san Paolo parlo del peccato al singolare, cioè di quel male in noi dal quale derivano i nostri vari peccati. È impossibile liberarsi del peccato, aderisce alla nostra anima. Ma c’è di meglio che affliggersi e disperarsi. Meglio da fare che nasconderci a Dio secondo l’esempio di Adamo dopo la sua colpa, o domandare a Dio di allontanarsi, come Pietro dopo la pesca miracolosa: è necessario presentarci al Signore veri, nudi, mostrargli le nostre piaghe. E il peccato riconosciuto, confessato, condannato, non è già più il peccato, ma solamente la “miseria” che invoca la dolcissima misericordia del Padre. Per il fatto che noi riconosciamo il nostro peccato, che lo chiamiamo col suo nome, che ci svincoliamo da lui, che lo esponiamo allo sguardo purificatore di Dio, ecco che non è più pericoloso, ecco che siamo miracolosamente purificati. L’uomo che durante la preghiera e nel corso delle ore, vive in questo atteggiamento di confessione a Dio del proprio peccato, è un’acqua limpida dove si riflette la purezza del cielo»”(Caffarel)

Nessun commento:

Posta un commento

Lasciate un commento