giovedì 29 ottobre 2020

Nutrimento per il cuore

Solennità di Tutti i Santi - 1 novembre 2020 


Dal Vangelo di Matteo (5,1-12)

In quel tempo, vedendo le folle, Gesù salì sul monte: si pose a sedere e si avvicinarono a lui i suoi discepoli. Si mise a parlare e insegnava loro dicendo:

«Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli.

Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati.

Beati i miti, perché avranno in eredità la terra.

Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati.

Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia.

Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio.

Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio.

Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli.

Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia.

Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli».





COMMENTO a cura di Paride Petrocchi da Offida (redazione on line www.legraindeblé.it)


Il brano evangelico odierno – Solennità di Ognissanti – più che essere commentato, andrebbe contemplato in silenzio, meditato nel cuore, “ruminando” nel corso della giornata, “impastato” nella nostra vita affinché essa sia tutta lievitata nell’amore.

Mi soffermo solo sull’incipit della pericope evangelica: “In quel tempo, vedendo le folle, Gesù salì sul monte: si pose a sedere e si avvicinarono a lui i suoi discepoli. Si mise a parlare e insegnava loro dicendo: ”Beati..."

Come nell’Esodo Mosè era salito sul Monte ed era disceso con le tavole della Legge, ora Gesù, il Nuovo Mosè sale su un monte e da lì scendono parole che sono Parola per la vita beata. Perché compie questo gesto? Perché crede che vi sia l’esigenza di una “Nuova Legge”? Quell’antica non andava più bene?

Tutte domande legittime ma che non giungono alla profondità necessaria della questione, infatti prima di parlare, Gesù “vede” le folle, le osserva, scruta i loro cuori, percepisce la loro fame e sete, è in perfetta “compassione” con i loro cuori, come con i nostri.

Gesù sa che ogni cuore pulsa che quell’eterna ed indomita domanda che ha sulle labbra il giovane ricco: “Maestro buono, che cosa devo fare per avere in eredità la vita eterna?” (Mc 10, 17). Come il giovane ricco, i discepoli gli si avvicinano, come se fossero calamitati da Gesù.

Tutto si ferma e si pone in ascolto. Nell’episodio del “giovane ricco”, Gesù inizia rispondendo, indicando il Decalogo, ma si spinge oltre e lo fa tutt’ora con le Beatitudini. La domanda rimane aperta, la risposta è sospesa o meglio “intessuta” in questo brano evangelico, perché essere felici è essere beati, essere beati è essere santi.

Contempliamo in questa domenica questa lunga lista e gustiamocela avrà il gusto della “vita eterna”.

sabato 24 ottobre 2020

Al cuor non si comanda?

Commento al Vangelo della XXX Domenica del TO / A - 25 ottobre 2020


Dal Vangelo secondo Matteo (22,34-40)

In quel tempo, i farisei, avendo udito che Gesù aveva chiuso la bocca ai Sadducèi, si riunirono insieme e uno di loro, un dottore della Legge, lo interrogò per metterlo alla prova: «Maestro, nella Legge, qual è il grande comandamento?». Gli rispose: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente. Questo è il grande e primo comandamento. Il secondo poi è simile a quello: Amerai il tuo prossimo come te stesso. Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e i Profeti».



COMMENTO 

Ringraziamo, per il commento di questa settimana, Emanuela Mori da Offida, della redazione on line http://www.legraindeble.it/

A volte anche noi mettiamo alla prova Dio, presumendo di conoscere il giusto. Ma Dio non si scompone: il tranello che il fariseo voleva porgli, Gesù lo tramuta in occasione per dare un insegnamento a tutti noi, perché siamo "come pecore senza pastore" (Marco 6,34). 

Gesù risponde: "Il grande comandamento è quello dell'amore". È qui l'assurdo: si può "comandare" l'amore? Nella nostra presunzione diremmo di no: "l'amore o c'è o non c'è, o lo senti o non lo senti; se non lo sento, le nostre strade si dividono", ci dice la nostra cultura dominante, e le amicizie finiscono, i rapporti si sgretolano e anche i legami familiari vacillano. Ma Dio ha un progetto di bene per noi. Dio non la pensa così: per Lui l'amore non è "quello che sento". Sulla croce, Dio non pensava alle tenebre che "sentiva" nel cuore (altrimenti, sarebbe sceso); pensava al Bene che poteva farmi con la sua resurrezione. L'amore esige i fatti. Non i nostri sentimenti, ma avere in noi "gli stessi sentimenti di Cristo" (Fil 2,5 e ss.). 

Mettendo il nostro cuore nel suo cuore possiamo sentirci capiti profondamente e misteriosamente, e unire le nostre sofferenze al valore salvifico della Sua croce. Unendoci a Lui, alla sua croce, anche quella frattura che percepiamo tra il nostro cuore e le esigenze dell'amore sarà redenta, inabissata nella sua morte (cfr. Rom 6,3-4), illuminata dalla sua resurrezione. E il mio cuore troverà la pace che desidera, intraprendendo la via dell'amore verso Dio "con tutto il mio cuore, con tutta la mia anima e con tutta la mia mente", e verso il prossimo "come me stessa". Perché "chi cerca il Signore, non manca di nulla" (Salmo 34,11). 

Buon cammino! 

domenica 18 ottobre 2020

Appartenere per essere liberi

 XXIX DOMENICA DEL TO/A  - 18 ottobre 2020


Dal Vangelo di Matteo (22,15-22)

15 Allora i farisei, ritiratisi, tennero consiglio per vedere di coglierlo in fallo nei suoi discorsi. 16 Mandarono dunque a lui i propri discepoli, con gli erodiani, a dirgli: «Maestro, sappiamo che sei veritiero e insegni la via di Dio secondo verità e non hai soggezione di nessuno perché non guardi in faccia ad alcuno. 17 Dicci dunque il tuo parere: È lecito o no pagare il tributo a Cesare?». 18 Ma Gesù, conoscendo la loro malizia, rispose: «Ipocriti, perché mi tentate? 19 Mostratemi la moneta del tributo». Ed essi gli presentarono un denaro. 20 Egli domandò loro: «Di chi è questa immagine e l'iscrizione?». 21 Gli risposero: «Di Cesare». Allora disse loro: «Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio». 22 A queste parole rimasero sorpresi e, lasciatolo, se ne andarono.


Commento a cura di Marco Raponi da Montecosaro

Da qualche domenica notiamo come i capi dei sacerdoti e i farisei sono particolarmente accaniti contro Gesù, d’altro canto Gesù è quanto mai diretto e tagliente nell’annuncio del Regno e nell’invito alla conversione; il tempo stringe, siamo al cap. 22 di Matteo, e nel cap. 26 poi inizierà il racconto della sua Passione. La radice del peccato va messa ben in evidenza affinché i figli di Dio siano attenti e vigilanti prima della partenza terrena di Gesù. 

Gesù è il veritiero e in questo hanno fatto centro i farisei, ma Gesù sa guardare in faccia a tutti, anche ai peggiori peccatori, perché Gesù non è venuto a condannare ma ad accogliere. Cesare era considerato un grande peccatore dai giudei, ma i farisei che si ritenevano perfetti e si permettono maliziosamente di tentare di incastrare Gesù. Come li avrebbe dovuti giudicare Gesù? Ma Gesù, come dicevamo, guarda tutti con occhi di amore, anzi con più amore i grandi peccatori. Gesù ci guarda dunque in faccia, ma condanna fermamente il peccato, e ci mette in guardia: il peccato porta necessariamente alla insoddisfazione, alla tristezza, al ripiegamento e in conclusione, alla dannazione.

Ecco la domanda palesemente ipocrita e consapevolmente tentatrice: "dato che tu sei il veritiero, vogliamo sapere da te se è giusto essere oppressi o no da tutte queste tasse, ancor più, essere sotto il giogo dei romani". In verità la domanda dei mandatari dei farisei posta a Gesù non è affatto interessata a chiedere un suggerimento su come comportarsi con gli oppressori romani, non è una domanda posta con fede. I farisei erano ricchi e non si interessavano alla condizione del popolo, ricchi di superbia soprattutto, e  amavano farsi vedere ed ammirare dalla gente come coloro che ritenendosi superiori non hanno bisogno di ascoltare qualcuno che possa minare difronte agli altri la loro superiorità, né tantomeno si interessavano di ascoltare la Parola di Verità di Gesù perché estremamente pungente per i cuori mondani.

Gesù in un’altra circostanza aveva parlato di tasse e di tributi da pagare (Matteo 17,24-27); in quella circostanza si rivolge a Pietro in occasione della visita a Cafarnao. I giudei che erano ritornati dall'esilio in Babilonia si impegnarono solennemente nell'assemblea a pagare  la tassa, in quel caso che era per fare in modo che il Tempio continuasse a funzionare e per curare la manutenzione sia del servizio sacerdotale che dell'edificio del Tempio (Neemia 10,33-40). Gesù in quella occasione dice: "da chi vanno riscossi i tributi per il Tempio? Dagli stranieri o dai propri figli?" Pietro risponde: "dagli stranieri". Gesù da una risposta simile anche agli emissari dei farisei: rendete dunque a Cesare quel che è di Cesare. La lettera ai romani cap. 13,7 dice: Rendete a ciascuno ciò che gli è dovuto: a chi si devono le tasse date le tasse, a chi l’imposta date l’imposta, a chi il timore il timore a chi il rispetto il rispetto. Gesù va al cuore dell’insegnamento, come sempre non si difende con violenza o attaccando sterilmente chi cerca di toglierlo di mezzo; Gesù ha una Paola di amore, di insegnamento, di accoglienza, di correzione con tutti. Gesù oggi ci dice: "dammi il tuo cuore, del resto usane per quel che è stato predisposto; non ti curare troppo nel trovare un bene o un male assoluto sulle cose del mondo, cura di avere il tuo cuore nel mio. Di chi è il cuore dell’uomo se non di Dio (date a Dio quel che è di Dio.) 

E’ bello vedere lo stupore negli emissari dei farisei, bene o male essi hanno avuto la grazia di ascoltare le parole di Gesù, hanno avuto modo di ascoltare una Parola liberante e benedicente, i farisei invece chiusi nel loro orgoglio restano con il cuore indurito. Se ci pensiamo anche noi dovremmo stupirci di questo Vangelo, a volte ci lamentiamo per le tasse per i servizi scarsi offerti dallo Stato ecc… , ma ci pensiamo mai che quei pochi o tanti soldi con cui paghiamo le tasse sono pur sempre un dono di Dio? Non è forse un dono il poter lavorare? Non è forse un dono avere quella data abilità che ci permette di svolgere il nostro lavoro? Ma soprattutto dov’è il nostro cuore dopo essere usciti da questa chiesa?


sabato 10 ottobre 2020

SIMILE AL REGNO: La scelta dell’anima “scelta”

Commento al vangelo della XXVIII Domenica TO/A - 11 ottobre 2020

 

Dal Vangelo di Matteo (22,1-14)

In quel tempo, Gesù, riprese a parlare con parabole [ai capi dei sacerdoti e ai farisei] e disse: 

«Il regno dei cieli è simile a un re, che fece una festa di nozze per suo figlio. Egli mandò i suoi servi a chiamare gli invitati alle nozze, ma questi non volevano venire. 

Mandò di nuovo altri servi con quest’ordine: Dite agli invitati: “Ecco, ho preparato il mio pranzo; i miei buoi e gli animali ingrassati sono già uccisi e tutto è pronto; venite alle nozze!”. Ma quelli non se ne curarono e andarono chi al proprio campo, chi ai propri affari; altri poi presero i suoi servi, li insultarono e li uccisero. Allora il re si indignò: mandò le sue truppe, fece uccidere quegli assassini e diede alle fiamme la loro città. 

Poi disse ai suoi servi: “La festa di nozze è pronta, ma gli invitati non erano degni; andate ora ai crocicchi delle strade e tutti quelli che troverete, chiamateli alle nozze”. Usciti per le strade, quei servi radunarono tutti quelli che trovarono, cattivi e buoni, e la sala delle nozze si riempì di commensali. 

Il re entrò per vedere i commensali e lì scorse un uomo che non indossava l’abito nuziale. Gli disse: “Amico, come mai sei entrato qui senza l’abito nuziale?”. Quello ammutolì. Allora il re ordinò ai servi: “Legatelo mani e piedi e gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti”. 

Perché molti sono chiamati, ma pochi eletti».


Commento a cura di Elisabetta Corsi da Fermo

Ὡμοιώθη ἡ βασιλεία τῶν οὐρανῶν ἀνθρώπῳ βασιλεῖ (omoiòthè e basiléia tòn uranòn anthròpo basiléi): “Simile è il regno dei cieli ad un uomo-re”. La precisione semantica di questa prima frase delinea con mirabile pregnanza la sostanza dell’analogia che Gesù traccia per ricomporre il nostro cielo interiore al Cielo divino. Il celeste spazio della coscienza ha un Re, intorno al quale si costituisce un regno che non ha la sua sede in un effimero potere terreno – inutile e vanitoso possedimento del mondo –, ma che si forma nell'invisibile spazio dello spirito.

Per amore nei confronti della creatura-uomo, il Re non rimane nella sua sede celeste, ma discende e si fa uomo e diventa un ἀνθρώπῳ βασιλεῖ (anthròpo basilèi) un uomo-re. Incarnando la sua sostanza divina nella carnalità umana, Dio-Re ricostituisce il fratturato legame che lo separa dall'uomo, strappando τὸ ὄνειδος τοῦ λαοῦ (tò òneidos tù laù), “il disonorevole velo del popolo”. Il rapporto fra Dio e il suo popolo è separato da una discrepanza che non permette all’uomo di vedere il suo Re e di riconoscere in Lui il proprio Padre. Solo per mezzo del Figlio, l’uomo, in quanto figlio, riconosce l’unica vera relazione che può unirlo all’amore del Padre, rimuovendo ciò che lo distanzia ed estranea dall’azione divina.

Il re prepara γάμους τῷ υἱῷ αὐτοῦ, (gàmos tò uiò autù) “a suo figlio le nozze”. La sposa del figlio del re, ad una prima lettura non precisata, è in realtà menzionata in tutto il passo evangelico. Infatti, il re ἀπέστειλεν τοὺς δούλους αὐτοῦ καλέσαι τοὺς κεκλημένους εἰς τοὺς γάμους (apèsteilen tùs dùlos autù kalésai tùs keklémenous eis tùs gamùs), letteralmente “mandò i suoi servi a chiamare i chiamati alle nozze”. Dapprima, Dio chiama l’Israele biblica e spirituale del “popolo eletto” - o meglio, il “popolo chiamato” che, però, “non vuole giungere” e che, anzi, al secondo richiamo del re e al compimento del sacrificio nuziale, insulta ed uccide gli schiavi, martiri-testimoni dell’amore di Dio.

L’invito del Re, poi, si estende: i “chiamati” divengono πάντας οὓς εὗρον (pàntas ùs èuron), letteralmente “tutti quanti (gli schiavi) trovano”, degni o indegni del banchetto nuziale. Costoro divengono ἀνακειμένων (anakeiménon), letteralmente “coloro che si sdraiano per cibarsi delle vivande del banchetto”, del banchetto eucaristico. Ma lo sguardo attento del re si posa su un “uomo non rivestito del vestito nuziale”. Interrogato sul perché di una tale mancanza, ὁ δὲ ἐφιμώθη, (o dè efimòthe), “l’uomo si azzittisce forzatamente”, letteralmente, per effetto della “museruola” che gli copre la bocca. Come conseguenza di una forzata prigionia, lo spirito ammutolisce di fronte alla chiamata e perde la forza di dire “sì” allo sposo celeste. Senza l’abito nuziale, “svestita di Cristo”, l’anima, da “chiamata” non può divenire “scelta”, non può divenire eklekté, parte viva, con la sua propria vita, della vita dell’ekklesìa, la vera eterna sposa del Cristo.


venerdì 2 ottobre 2020

Per chi?

 Domenica 4 ottobre 2020 - XXVII Dom TO/A


Dal Vangelo di Matteo (21,33-43) 

In quel tempo, Gesù disse ai capi dei sacerdoti e agli anziani del popolo: 

«Ascoltate un’altra parabola: c’era un uomo, che possedeva un terreno e vi piantò una vigna. La circondò con una siepe, vi scavò una buca per il torchio e costruì una torre. La diede in affitto a dei contadini e se ne andò lontano. 

Quando arrivò il tempo di raccogliere i frutti, mandò i suoi servi dai contadini a ritirare il raccolto. Ma i contadini presero i servi e uno lo bastonarono, un altro lo uccisero, un altro lo lapidarono. Mandò di nuovo altri servi, più numerosi dei primi, ma li trattarono allo stesso modo. 

Da ultimo mandò loro il proprio figlio dicendo: “Avranno rispetto per mio figlio!”. Ma i contadini, visto il figlio, dissero tra loro: “Costui è l’erede. Su, uccidiamolo e avremo noi la sua eredità!”. Lo presero, lo cacciarono fuori dalla vigna e lo uccisero. 

Quando verrà dunque il padrone della vigna, che cosa farà a quei contadini?». 

Gli risposero: «Quei malvagi, li farà morire miseramente e darà in affitto la vigna ad altri contadini, che gli consegneranno i frutti a suo tempo». 

E Gesù disse loro: «Non avete mai letto nelle Scritture: “La pietra che i costruttori hanno scartato è diventata la pietra d’angolo; questo è stato fatto dal Signore ed è una meraviglia ai nostri occhi”?

Perciò io vi dico: a voi sarà tolto il regno di Dio e sarà dato a un popolo che ne produca i frutti».


COMMENTO a cura di Benedetta Dui da Jesi

È affascinante la cura e il cuore che Dio mette nel fare le cose: piantò una vigna. La circondò con una siepe, vi scavò una buca per il torchio e costruì una torre. Ed è commovente la fiducia che dimostra nei confronti dei contadini (nei quali ci possiamo riconoscere), chiamandoli a lavorare quella stessa vigna. Addirittura si allontana, non perché non gliene importi più niente, ma perché solo quando qualcuno ci affida qualcosa di importante percepiamo che si fida davvero di noi e non ci sta prendendo in giro. Già questo aspetto ci fa meditare e ci fa chiedere: Che cosa o chi mi ha affidato Dio perché io me ne prenda cura? 

Ma questa parabola scende più in profondità e porta alla luce un altro forte interrogativo: Ma per chi mai pensavano di lavorare quei contadini? E noi invece? Nelle nostre parrocchie, nelle comunità, nelle fraternità, nel volontariato, al lavoro, all'università e in tutti quei luoghi in cui Dio ci chiama… per chi veramente facciamo le cose?

Forse, come i contadini della parabola, a volte anche noi agiamo solo per noi stessi e finiamo col credere di essere padroni di cose e persone e diventiamo adoratori di una logica di possesso, di potere e di prepotenza, che non può minimamente coincidere con la logica di Dio che è amore gratuito.

Come ci insegna San Francesco d’Assisi: “Il contrario dell’amore non è l’odio ma il possesso”, parole molto care a Chiara Corbella Petrillo che scriveva: “Se starai amando veramente, te ne accorgerai dal fatto che nulla ti appartiene veramente, perché tutto è dono”. In verità al Padre interessa soprattutto che compiamo la nostra missione con amore: questo è il frutto più bello e buono che possiamo produrre! Perciò ha donato a noi Gesù, Suo Figlio: perché impariamo come si fa ad amare su questa terra.