venerdì 31 luglio 2020

Perché restiamo con Gesù?


XVIII Domenica Tempo Ordinario - anno A – 2 agosto 2020


Questa settimana il nostro Blog del Servizio di Pastorale giovanile dei Cappuccini delle Marche ospita la riflessione del giovane Paride Petrocchi, della redazione "Le grain de blé". Mentre lo ringraziamo, siamo certi che a lui si aggiungeranno altri giovani, desiderosi di condividere le loro riflessioni sul Vangelo della Domenica.


Dal Vangelo di Matteo (14,13-21)

In quel tempo, avendo udito [della morte di Giovanni Battista], Gesù partì di là su una barca e si ritirò in un luogo deserto, in disparte. 

Ma le folle, avendolo saputo, lo seguirono a piedi dalle città. Sceso dalla barca, egli vide una grande folla, sentì compassione per loro e guarì i loro malati.
Sul far della sera, gli si avvicinarono i discepoli e gli dissero: «Il luogo è deserto ed è ormai tardi; congeda la folla perché vada nei villaggi a comprarsi da mangiare». Ma Gesù disse loro: «Non occorre che vadano; voi stessi date loro da mangiare». Gli risposero: «Qui non abbiamo altro che cinque pani e due pesci!». Ed egli disse: «Portatemeli qui». 

E, dopo aver ordinato alla folla di sedersi sull’erba, prese i cinque pani e i due pesci, alzò gli occhi al cielo, recitò la benedizione, spezzò i pani e li diede ai discepoli, e i discepoli alla folla. 
Tutti mangiarono a sazietà, e portarono via i pezzi avanzati: dodici ceste piene. Quelli che avevano mangiato erano circa cinquemila uomini, senza contare le donne e i bambini.



COMMENTO a cura di Paride Petrocchi da Offida 

Vi è un piccolo dettaglio del racconto evangelico matteano di questa domenica, un passo molto conosciuto anche nelle altre versioni degli evangelisti.
Questo particolare è lo stacco temporale introdotto dalla locuzione “Sul far della sera…” cioè il momento che si pone tra le fine dell’opera “guaritrice” di Gesù avvenuta nell'arco pomeridiano e il momento serale in cui sta per compiersi la moltiplicazione dei pani e dei pesci.

La mia attenzione non è stata tanto catturata dal movimento affannoso dei discepoli, preoccupati santamente della mancanza di cibo né dai gesti del Maestro che fa sedere tutti con una serenità di chi sa di essere custodito da un amore più grande, il focus per me è tutto sull'atteggiamento della folla.

Se riavvolgessimo il nastro della narrazione vedremo un insieme abbastanza ampio di persone che, appena visto Gesù che con la barca sta per salpare in un luogo vanno a Lui.
Lo seguono con lo sguardo e con il corpo fino al punto di ritrovo, lì Gesù prima prova compassione e poi guarisce i loro malati.

E’ facilmente intuibile il motivo per cui le folle vanno a Lui: il bisogno di Lui in alcune difficoltà, anche fisiche come una malattia, ciò che mi rimane più in chiaroscuro e stuzzica la mia coscienza è il motivo del perché essi “rimangono” lì.
Matteo, infatti, usa verbi al perfetto per entrambe le azioni: “provò compassione” e “guarì” che indicano entrambi un’azione compiuta, terminata ma allora perché questa folla immensa “circa cinquemila uomini senza contare le donne” non va via? Perché non torna nelle proprie case? Perché indugiano alla presenza di Gesù?

Questo comportamento della folla provoca me nel profondo della mia vita, è vero molte volte sono andato a Gesù nel bisogno, nell'afflizione, nel dolore ma perché “rimango” o meglio cerco di rimanere alla sua presenza, alla sua vicinanza?
Forse che dietro a quel bisogno immediato c’era e c’è un desiderio più grande? Un desiderio di essere amato senza condizioni, di un abbraccio senza scadenze?

Ecco la domanda che metto nella bisaccia per questa settimana: perché sto o resto con Gesù?

venerdì 24 luglio 2020

Chi cerca viene trovato

XVII Dom del TO anno A - 26 luglio 2020



Dal Vangelo di Matteo (13,44-46)
(versione breve)
             
In quel tempo Gesù disse ai suoi discepoli: 
«Il regno dei cieli è simile a un tesoro nascosto nel campo; un uomo lo trova e lo nasconde; poi va, pieno di gioia, vende tutti i suoi averi e compra quel campo.
Il regno dei cieli è simile anche a un mercante che va in cerca di perle preziose; trovata una perla di grande valore, va, vende tutti i suoi averi e la compra».


COMMENTO a cura di fra Damiano Angelucci da Fano

Forse le due parabole più corte del Vangelo. 
Nella prima il regno dei cieli è paragonata a un tesoro, nascosto nel campo, una realtà per la quale vale la pena vendere tutto. Noi sappiamo che questa realtà è Cristo stesso, perché in Lui e grazie a Lui incontriamo la paternità di Dio e di conseguenza la cosa più preziosa di questo mondo a cui tutti teniamo: la vera felicità, una vita piena, bella che, malgrado le difficoltà, fiorirà definitivamente nella vita eterna.

L’umanità del Messia e nei tempi successivi, l’umanità della Chiesa (suo corpo spirituale) costituiscono il luogo, il campo, in cui la sua divinità è velata e quasi nascosta, ma anche l’opportunità per poterla trovare. In fondo l’uomo della parabola non va in cerca di tesori e, anzi, sembra proprio che lo trovi per caso; ma il suo merito è quello di non lasciarselo sfuggire, di custodirlo, di capire cioè di aver trovato ciò per cui vale la pena sacrificare tutto il resto.   

Nella seconda parabola il regno dei cieli è paragonato non più ad un qualcosa ma a una persona, in particolare ad un mercante che va in cerca di perle preziose. Gesù ci vuol dire che il regno dei cieli è già nel cuore di chi cerca cose belle. Situazioni storiche, contingenze umane possono impedire un incontro esplicito, sacramentale con la presenza di Cristo, ma l’uomo che va in cerca di cose vere e non di banalità, l’uomo che non si accontenta di soddisfazioni passeggere e cerca nella verità della propria coscienza ciò che è giusto e vero, questo uomo prima o poi troverà la perla preziosa, si incontrerà con l’amore di Dio, con l’amore che è Dio. 

Lasciamoci provocare in due direzioni. Siamo abituati a vivere e bruciare esperienze sempre più rapidamente, ma spesso non ci rendiamo conto della bellezza che ci passa accanto: la serenità di una persona, la pazienza di un familiare, la bellezza di un’esperienza vissuta. Anche in queste cose si incontra il tesoro dell’amore di Dio, ma spesso non lo notiamo.

E ancora: la passione della ricerca del mercante. Francamente ho l’impressione che non si creda più alla felicità, alla possibilità di una vita felice, che solo Dio può darci - già al presente - e ci accontentiamo. Ma chi si accontenta non sempre gode, si accontenta e basta.

mercoledì 22 luglio 2020

Dalla redazione di "Le grain de blé"

Nella festa liturgica di Maria Maddalena, apostola degli apostoli, ascoltiamo questo commento sinottico tra due brani della Bibbia: uno tratto dal capitolo 20 di Giovanni e uno dal libro della Genesi.

Il dolore e il pianto della Maddalena

Il Signore Dio fece all’uomo e a sua moglie tuniche di pelli e li vestì. 
Poi il Signore Dio disse: «Ecco, l’uomo è diventato come uno di noi quanto alla conoscenza del bene e del male. Che ora egli non stenda la mano e non prenda anche dell’albero della vita, ne mangi e viva per sempre!». Il Signore Dio lo scacciò dal giardino di Eden, perché lavorasse il suolo da cui era stato tratto. Scacciò l’uomo e pose a oriente del giardino di Eden i cherubini e la fiamma della spada guizzante, per custodire la via all’albero della vita (Gn 3, 20-24).
In questi tempi pandemici moltissime persone stanno, come Maria Maddalena, in prossimità del sepolcro di Gesù, del suo ricordo, con gli occhi pieni di pianto. Un pianto che lava, ma che, fintanto che fluisce, vela gli occhi di nebbia e impedisce di riconoscere le cose nella loro verità. Il dolore prostra: Maria Maddalena si china sul sepolcro dell’Amato Gesù, è ripiegata, accartocciata, questo dolore non la redime.
Ma proprio in quel momento contempla attraverso le lacrime due angeli, uno alla testa e uno ai piedi del luogo in cui Gesù era stato deposto, due angeli come i due cherubini di Eden.
La menzogna spacciata dai sommi sacerdoti all ’indomani della Resurrezione – si doveva spargere la brutta novella del furto del cadavere dell’impostore Gesù – avvelena anche il cuore della fedele discepola. Lo hanno preso
A questo punto, si volta, si converte a un’immagine di Gesù che le si presenta dinanzi. Forse è per quella nebbia amara di lacrime, ma Maria non lo riconosce, pensa che è il custode del giardino. Gesù, il custode del giardino. 
Ed è così, se torniamo al terzo capitolo della Genesi, in cui Dio Padre custodisce il giardino dalla presa dell’uomo. Incredibile quanto la Parola evochi nella memoria del suo popolo. Non è vero che è il custode del giardino, eppure è vero, Gesù è il custode del giardino nuovo, quel giardino da cui Adamo fu cacciato via. Ma Maria questo non lo vede ancora, non può vederlo.
Manca un passaggio fondamentale.

Prendere o lasciare?

Si fa avanti, andrà lei a riprenderlo. Vuole prenderlo. Ieri i soldati del racconto evangelico avevano preso i soldi dei sommi sacerdoti per spargere la menzogna, ieri le donne si lanciano su Gesù per prendergli i piedi, afferrarli per sé. È tutto un prendere, un arraffare, non c’è ancora spazio nel cuore dell’uomo per lasciare la presa. Un maestro mi ha insegnato che prendere è il verbo del peccato dei progenitori e di ogni peccato che è venuto dopo. Accogliere, lasciare la presa, è il verbo della vita nuova. C’è un’espressione bella per dire la generosità: avere le mani bucate. Forse non ci pensiamo, ma sono proprio le mani di Gesù crocifisso e risorto, bucate vuol dire che sono talmente aperte e libere che proprio niente possono più trattenere. 

Maria!

Ma ecco qui la svolta: “Maria!”.
La chiama per nome, e lei si volta ancora. È a quel punto della sua “conversione” che la prostrazione di Maria diviene preghiera che sgorga da un cuore purificato. Nel suo dolore, Qualcuno l’ha amata: Gesù, il Dio che l’aveva misericordiata. Solo a Lui parli con la tua vera voce, solo Lui la sa ascoltare, la riconosce, la assume tra le sue cose più care, la tua voce, quella che fai difficoltà a riascoltare quando la registri, quella che neppure tu vuoi riconoscere, quella di cui hai vergogna. Il tuo dialetto personale. “Rabbunì!”.

Mio o nostro?

A questo punto dopo averla amata, Gesù torna a insegnare. “Non trattenermi.” Non arraffarmi. Non prendermi, lasciami andare dal Padre.
Lei che aveva detto agli angeli: Hanno preso il mio Signore! Quanto lo amava! Ma lo voleva tutto per sé, era il suo. Gesù ora le dice: Va’ dai miei fratelli, e di’ loro: “Salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro”. Non esiste più “mio”, che non sia anche “vostro”.
Questo Vangelo per me è stato la rivelazione della fraternità, che non avevo mai compreso nell ’ambito della famiglia naturale, o della società, o nei proclami dei politici.

L’inizio degli “inizi” di Maria, la nuova Eva.

Mi ricordo la prima impressione fortissima che mi provocò ascoltare questo Vangelo: Dove ho già visto questa scena? Era un déjavu o cosa? 
Era il giardino di Genesi, dove stava l’albero della vita (la croce), i cherubini (gli angeli in bianche vesti), l’umanità redenta (Maria di Magdala), che si ripresenta al suo vero Custode, risorto, per ricevere la vita compiuta. 
Vi ricordate come comincia questa storia? L’angelo si presenta alla vergine Maria, le dice “Rallegrati, non temere, il Signore è con te”.
E ora, alla fine del racconto, il Risorto si rivolge alle donne con le stesse parole, annuncia loro di rallegrarsi e di non temere. 
Il Signore è con noi nei nostri ospedali sfiniti e delle nostre case sigillate, ripete le stesse parole, sempre nuove. Forse non abbiamo spazio per correre come le donne e gli apostoli fino alle nostre chiese. Ma abbiamo tempo di ascoltare le sue parole, le sole cose viventi che ci sono rimaste, che trasformano i cimiteri in giardini e la pietra del sepolcro nel pane della Resurrezione.

venerdì 17 luglio 2020

Il grano delle meraviglie

XVI Domenica del TO, anno A – 19 luglio 2020


Dal Vangelo di Matteo (13,24-30)

In quel tempo, Gesù espose alla folla un’altra parabola, dicendo: «Il regno dei cieli è simile a un uomo che ha seminato del buon seme nel suo campo. Ma, mentre tutti dormivano, venne il suo nemico, seminò della zizzania in mezzo al grano e se ne andò. 
Quando poi lo stelo crebbe e fece frutto, spuntò anche la zizzania. Allora i servi andarono dal padrone di casa e gli dissero: “Signore, non hai seminato del buon seme nel tuo campo? Da dove viene la zizzania?”. Ed egli rispose loro: “Un nemico ha fatto questo!”. E i servi gli dissero: “Vuoi che andiamo a raccoglierla?”. “No, rispose, perché non succeda che, raccogliendo la zizzania, con essa sradichiate anche il grano. Lasciate che l’una e l’altro crescano insieme fino alla mietitura e al momento della mietitura dirò ai mietitori: Raccogliete prima la zizzania e legatela in fasci per bruciarla; il grano invece riponètelo nel mio granaio”».


COMMENTO a cura di fra Damiano Angelucci

Nella parabola di Domenica scorsa Gesù raccontava di un seminatore che uscì a seminare abbondantemente, con una diversa resa a seconda dei diversi terreni. Nella parabola di oggi c’è sicuramente un terreno fertile, buono, in cui è seminato un seme altrettanto buono. “Da dove viene la zizzania?” chiedono allora stupiti i servi del padrone. Entra in scena un nemico. Nello sviluppo sorprendente della storia il centro della questione, tuttavia, non è il misterioso nemico, ma l’atteggiamento dei servi, con almeno due considerazioni da fare.

Anzitutto qualcuno ha dormito: chi doveva vigilare sul campo ha dormito e ha permesso al cattivo di turno di seminare il male. Non è secondario questo problema: o si semina il bene o si lascia spazio al male, perché non esiste una neutralità a livello di scelte morali. Mi sembra che a volte siamo troppo faciloni preoccupandoci solo che non ci sia nulla di male. Chiediamoci piuttosto: “in questa scelta, in questa possibilità c’è qualcosa di buono? Il Signore, Cristo Gesù - ammesso che sia il nostro modello di riferimento - come deciderebbe in questa situazione? Qualcuno ha già detto che più della cattiveria dei malvagi occorre temere il silenzio dei buoni.  

Secondo nodo: i servitori vorrebbero subito strappare la zizzania. Molto negligenti nel custodire il bene, ma molto rapidi nella pretesa di strappare il male. Farebbero certamente danni enormi, sradicando anche il grano. Questi servi, inoltre, non si fidano della potenza del grano, un grano così particolare a dir il vero, da non soffrire la concorrenza della zizzania e che esiste solo nelle parabole di Gesù. Su questo elemento di stranezza dovranno riflettere i discepoli di Cristo: non possono farsi giudici al posto di Dio. Che siano vigilanti nel mantenere le loro intenzioni e le loro azioni nella volontà del Signore, ma che lascino a Lui e a Lui solo il compito di giudicare i frutti generati nel campo del mondo.

venerdì 10 luglio 2020

Quando una vita può diventare feconda

XV Domenica del TO anno A – 12 luglio 2020         



Dal Vangelo di Matteo (13,1-9):                       

Quel giorno Gesù uscì di casa e sedette in riva al mare. Si radunò attorno a lui tanta folla che egli salì su una barca e si mise a sedere, mentre tutta la folla stava sulla spiaggia.
Egli parlò loro di molte cose con parabole. E disse: «Ecco, il seminatore uscì a seminare. Mentre seminava, una parte cadde lungo la strada; vennero gli uccelli e la mangiarono. Un’altra parte cadde sul terreno sassoso, dove non c’era molta terra; germogliò subito, perché il terreno non era profondo, ma quando spuntò il sole fu bruciata e, non avendo radici, seccò. Un’altra parte cadde sui rovi, e i rovi crebbero e la soffocarono. Un’altra parte cadde sul terreno buono e diede frutto: il cento, il sessanta, il trenta per uno. Chi ha orecchi, ascolti».


COMMENTO a cura di fra Damiano Angelucci da Fano

Nella più antica biografia di San Francesco d’Assisi si dice che egli non era mai stato un ascoltatore sordo del Vangelo; ma un giorno in particolare, mentre nella liturgia veniva letto il passo relativo all’invio da parte di Gesù degli apostoli, per andare a predicare senza possedere “né oro, né argento, né denaro …” il giovane Francesco non sopporta alcun ritardo a mettere in pratica quell’esortazione e, spogliandosi di tutto, comincia a predicare la conversione e la penitenza. 
Non si tratta di un automatismo, di una parola magica che agisce per il fatto stesso di essere ripetuta come fosse una parola d’ordine. Ma si tratta di una parola che trasmette una presenza, con una potenzialità enorme, e che ha bisogno di un terreno fertile per portare frutto. La fertilità è data dal desiderio profondo di Dio o comunque di quel “Tu” che potremmo ancora non conoscere ma che sinceramente ricerchiamo.

Difficilmente il Signore potrà manifestarsi e portare frutto in coloro che non cercano nulla al di fuori del proprio “io”, in coloro che ascoltano solo i sensi e non la profondità della coscienza, o in coloro che cercano un Dio a propria immagine, secondo il proprio gusto.

In questa parabola il Signore pone dunque una distinzione non a livello di appartenenza o meno ad un gruppo religioso, ma a livello della coscienza, della disponibilità ad accogliere la sua Parola come senso della nostra vita. Questo è propriamente il terreno buono che permetterà al Signore, presto o tardi, di portare frutti di misericordia e di giustizia là dove ci troveremo.

sabato 4 luglio 2020

Dio è per tutti. Il Padre solo per chi è nel Figlio

XIV Dom TO anno A - 5 luglio 2020 -


Dal Vangelo di Matteo (11,25-30)     
         
In quel tempo Gesù disse:
«Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o Padre, perché così hai deciso nella tua benevolenza. Tutto è stato dato a me dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo.

Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita. Il mio giogo infatti è dolce e il mio peso leggero».


COMMENTO a cura di fra Damiano Angelucci da Fano

Che un peso possa diventare leggero e un giogo dolce, diventa possibile solo in una prospettiva altra, diversa, rispetto a quella con cui normalmente guardiamo e giudichiamo le cose. Questo punto di osservazione privilegiato è quello da cui Gesù è venuto a svelarci i misteri del Regno di Dio, ed è la sua stessa condizione di vita: quella dei piccoli del mondo, quella di chi non presume da sé e da una propria sapienza ma è consapevole di dipendere da un Altro, da chi è sorgente e autore della vita stessa, detto in altri termini: quella di chi è consapevole di essere generato da un Padre. 

Gesù di Nazaret esulta nel cuore perché percepisce l’affermarsi, anzitutto nella sua vita, della presenza misericordiosa di Dio. Tale presenza rimane nascosta e preclusa a chi presume di poterla acquisire per meriti propri, ma si svela a chi accoglie il Figlio Gesù, e accogliendo la sua presenza, che nel tempo attuale è quella del suo Santo Spirito, accoglie il suo punto di osservazione della storia.

Tutti gli uomini che si ritrovano in una qualche confessione religiosa, in linea di principio accettano Dio come un’entità superiore a noi umani. Tuttavia sono ben pochi coloro che accettano che Dio abbia veramente potuto farsi uomo, un uomo disprezzato, e addirittura condannato dagli uomini. Che Dio è questo che si mischia così tanto con le nostre ingiustizie. Che sapienza è mai questa?

Qui occorre realmente la sapiente umiltà di chi si abbandona a Dio come un figlio e che Gesù vive per primo. Chi non accetta questa estrema degnazione dell’amore di Dio di abbassarsi così tanto, farà tanta fatica a credere nell'infinita misericordia del suo abbraccio che tutto perdona. Chi pensa di poter vantare sempre qualcosa davanti a Dio non riuscirà mai a sentirsi perdonato gratuitamente e la vita gli porrà gioghi e pesi impossibili da portare.
Solo l’amore del Figlio Gesù ci potrà restituire la libertà e la fiducia di invocare Dio “Padre!”