domenica 19 dicembre 2021

Maria ed Elisabetta: la santità nel quotidiano

 IV Domenica di Avvento/C – 19 dicembre 2021


Dal Vangelo di Luca (1,39-45) 

In quei giorni Maria si alzò e andò in fretta verso la regione montuosa, in una città di Giuda. 

Entrata nella casa di Zaccarìa, salutò Elisabetta. Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il bambino sussultò nel suo grembo. Elisabetta fu colmata di Spirito Santo ed esclamò a gran voce: «Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo! A che cosa devo che la madre del mio Signore venga da me? Ecco, appena il tuo saluto è giunto ai miei orecchi, il bambino ha sussultato di gioia nel mio grembo. E beata colei che ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto».


Commento a cura di Martha, Mary e Elisabetta

Quando accade qualcosa di bello, quando veniamo a sapere una buona notizia partiamo, ci mettiamo in cammino. Non stiamo fermi, non ci riusciamo. Il primo istinto è quello di andare, di andare a vedere, di andare a trovare. È come se il corpo fosse attratto da una forza bella, gioiosa, nuova. Il corpo è opera di Dio, noi deriviamo da lui, perciò aneliamo per tutta la vita alla felicità e la ricerchiamo in ogni angolo del mondo. 

Maria aveva saputo dall'angelo che sua cugina era incinta, lo aveva saputo quando ricevette l'annuncio. Emozione su emozione. Me la immagino, lì in ginocchio e poi seduta, e di certo anche durante la notte, distesa, con gli occhi spalancati, a pensare a tutto quello che le stava accadendo. Quel figlio che era arrivato dentro di lei, inaspettatamente, era qualcosa di inimmaginabile, era Qualcuno che avrebbe stravolto la sua esistenza prima di stravolgere quella dell'umanità intera. Me la immagino che pur nella sua santità avrà avuto dei momenti in cui si è sentita sopraffare da tutto questo, ma essendo Lei non avrà mai lasciato che l'angoscia prevalesse perché amava Dio, si fidava ciecamente di Lui e sapeva che non doveva temere nulla. Allora fece quello che fanno le donne di solito, andò avanti, occupandosi oltre che della sua anima anche del suo corpo di mamma, e pensò a quella cugina, anziana, che era incinta e che molto probabilmente aveva bisogno di una mano di donna, sia per affrontare e condividere il carico emotivo, che per tutto il resto. 

Qui c'è tutto un mondo femminile fatto di intimità, scambi di emozioni, accudimento, gentilezza. Qui c'è un po' di quegli incontri tra donne, amiche, cugine, durante i quali ci si chiede: "L'hai già preparata la valigia? Ti porti i body a manica corta o lunga?". E ancora: "Ma tu come stai? Io ho le nausee tutto il giorno. E poi per non parlare del nervo sciatico!". 

Maria non aveva questi pensieri, i suoi erano probabilmente molto più elevati e profondi, lei era pervasa di Spirito Santo, la pace regnava in essa. Ciononostante, sebbene fosse la prescelta, la madre del figlio di Dio, non veniva meno la sua natura di donna e quando fu il momento giusto si mise in viaggio e andò da sua cugina, per aiutarla, per starle vicino, per farle compagnia. 

È fantastico il carico di umanità che porta questa visita. Non è stato l'angelo a dirle di andare da Elisabetta, è stata lei, Maria, a prendere questa decisione. Ne avrà di certo parlato con Giuseppe, avranno organizzato tutto insieme, lui l'avrà aiutata e l'avrà salutata con amore. Probabilmente sono stati lontani ben tre mesi, fino al parto di Elisabetta. Maria voleva starle accanto nel trimestre più importante, quello che precede la nascita, quello in cui tutto si fa più concreto, i movimenti nella pancia sono forti, spesso ti rivoltano lo stomaco. La stanchezza è grande, c'è bisogno di mani esterne che aiutano, che confortano, che cucinano, puliscono. Potremmo immaginarci Maria, la madre di Dio, trascorrere la sua gravidanza in modo nascosto, in contemplazione, quasi in ritiro spirituale. E invece eccola, incinta, partire verso le montagne, fare un viaggio, il primo viaggio insieme a quel bambino appena nato dentro di lei. 

Questo ci dice tanto sulla santità, che non è uno stato d'essere astruso da ciò che ci circonda, è anzi l'essere nel mondo - ma non del mondo - in modo santo, con Dio nel cuore ma accanto alle persone. E Maria ci fa vedere come si fa: tra donne ci si deve aiutare nei momenti di bisogno, e di certo la gravidanza è un momento estremamente delicato, ricco di gioia ma anche di stanchezza, fatica, difficoltà, sensazioni e emozioni che un uomo non può comprendere pienamente, se poi pensiamo al tempo in cui si svolsero i fatti era impensabile che un uomo si occupasse di queste cose. 

Il bello, il grandioso, il segno ci viene dato nel momento in cui Maria arriva in casa della cugina, saluta Zaccarìa, ed eccola, vede Elisabetta, le va incontro salutandola e probabilmente la abbraccia. In quel momento, quel saluto fa sussultare, o più che altro saltare di gioia, il bambino nella pancia di Elisabetta. Ed Elisabetta non tentenna, non dubita, non perde tempo e riconosce subito la grandezza della giovane donna che aveva davanti a sé: Maria. Elisabetta loda sua cugina, le rivolge parole di amore e in questo suo benvenuto, che somiglia ad una preghiera, benedice Maria e poi benedice il figlio che porta nel grembo, riconoscendo senza esitazione il fatto straordinario della maternità divina.

Ecco cosa vuole dirci Luca nel suo vangelo: Dio passa attraverso una donna, sua madre Maria, e viene da noi con un entusiasmo unico. Ognuno di noi è amato, cercato, voluto e quando Maria ci saluta sta a noi riconoscerla, sta a noi sentire il sussulto di gioia. Maria ci porta a Dio, lo fa come una mamma, quindi ci mette gentilezza, delicatezza, cura. Non viene da noi con eserciti al seguito, non grida, non ci scuote le spalle, anche se a volte sono certa che lo vorrebbe, specie quando vede uno dei suoi figli perdersi, darsi via, trattarsi come fosse spazzatura. Ma non lo fa, rimane discreta, rispetta i nostri tempi, prende strade tortuose, passa per vicoli stretti, fa tutto pur di portarci a Dio. Noi dobbiamo fare la nostra parte, dobbiamo mettere a tacere tutto il rumore del mondo, tutto l'inquinamento acustico che non ci permette di sentire il sussulto, perché quando accadrà, quando dopo tanta fatica, tanto dolore, pur soffrendo avremo fatto silenzio, ci saremo messi in ascolto e lo avremo sentito, quel sussulto sarà come un terremoto che spazza via tutte le macerie in cui abbiamo ridotto la nostra anima e ci costruisce sopra una vita nuova.


domenica 5 dicembre 2021

Giovanni l'eccentrico

II Domenica di Avvento, anno C– 5 dicembre 2021


Dal Vangelo di Luca (3,1-6) 

Nell’anno quindicesimo dell’impero di Tiberio Cesare, mentre Ponzio Pilato era governatore della Giudea, Erode tetràrca della Galilea, e Filippo, suo fratello, tetràrca dell’Iturèa e della Traconìtide, e Lisània tetràrca dell’Abilène, sotto i sommi sacerdoti Anna e Càifa, la parola di Dio venne su Giovanni, figlio di Zaccarìa, nel deserto.

Egli percorse tutta la regione del Giordano, predicando un battesimo di conversione per il perdono dei peccati, com’è scritto nel libro degli oracoli del profeta Isaìa:

«Voce di uno che grida nel deserto:

Preparate la via del Signore,

raddrizzate i suoi sentieri!

Ogni burrone sarà riempito,

ogni monte e ogni colle sarà abbassato;

le vie tortuose diverranno diritte

e quelle impervie, spianate.

Ogni uomo vedrà la salvezza di Dio!».


Commento a cura della fraternità della Speranza

Da subito il brano evangelico capovolge i canoni tradizionali della storia, dirotta uno svolgimento classico, in qualcosa di inaspettato. È la Parola che, guidando il nostro sguardo sulla storia, lo dirotta dai palazzi imperiali di Roma e dalle curie sacerdotali di Gerusalemme, al deserto di Giuda. Così come la parola aveva dirottato lo sguardo su una giovane ragazza di un insignificante villaggio della Galilea delle genti. In modo da abituare il nostro cuore a fermarsi dove Dio ama posarsi.

Il Battista rappresenta quell’uomo vero, che può finalmente accogliere il Signore che viene e raggiungere così la completezza, perché l’uomo è immagine di Dio. La caratteristica fondamentale di Giovanni è che è una persona eccentrica, non solo perché andava vestito di peli di cammello e mangiava locuste e viveva nel deserto, ma perché ha il centro fuori di sé. Il nostro centro è fuori. Noi abitiamo dove sta il nostro cuore, dove amiamo.

Lasciandoci quindi affascinare da ciò che conta davvero ai Suoi occhi. Imparando anzitutto a passare dall'abitudine istintiva di guardarsi addosso, d'essere auto centrati, a saper vedere nella direzione che lo sguardo di Dio ci indica di volta in volta.

Giovanni raffigura la sua missione in modo visivo, il deserto /esodo, la terra promessa/ Gesù. La sua missione analogamente a Mosè è condurre verso la libertà, verso la terra promessa che è Gesù.

La parola cadde quindi su quest'uomo nel deserto di Giuda e non nel palazzo di Tiberio Cesare, né dei sommi sacerdoti a Gerusalemme. Perché la parola cade sempre nel luogo del silenzio, il luogo del non disturbo, il luogo dove si è fuori da tutti i giochi di potere, il luogo della povertà.

Quello è il luogo fondamentale dove l’uomo sperimenta i suoi limiti, dove ha bisogno di tutto, dove si può vivere solo insieme con gli altri in solidarietà, sennò muori subito se sei da solo.

È il luogo della prova, della tentazione, ma anche il luogo della fedeltà, della manna, della parola, del cammino, dell’acqua. Il deserto è il luogo fondamentale. Come il silenzio è il luogo della parola, il deserto è il luogo dove si forma l’uomo.

Giovanni non è uno che si fa strada e non è certo preoccupato della sua carriera tra le gerarchie del mondo e delle religioni. È un apripista esperto e capace di aprire varchi, di individuare percorsi, di intravvedere sentieri che col tempo s'erano persi. Capace di attraversare le montagne, di fare ponti, di farti correre verso la meta. La sua grande e unica passione è quella di permettere a tutti di riuscire a vedere finalmente “la salvezza di Dio”. E mentre parla e cerchi di fissare lo sguardo su di lui, la sua immagine si dissolve e in dissolvenza vedi già Lui, Gesù di Nazaret che sta avanzando.

Non sei più tu il motore che avvia il senso, una direzione di vita che merita d'essere percorsa. Un altro ti sta conducendo. Di Lui hai cominciato a fidarti, accettando che ti abitasse senza più fare calcoli su di te, senza avere più riserve o recuperi. È così che si diventa traghettatori: portatori di una Parola che ti brucia dentro e ti dirotta il cuore là dove non avresti mai pensato.

E, come Giovanni, gridi la Parola e alzi la voce. Senza provare vergogna, senza temere le reazioni dei potenti. Semplicemente prendi posizione e ti schieri. E c'è chi ti esalta e chi invece ti giudica temerario e ti disprezza. Ma tutto questo non conta. A te importa d'essere allineato alla Parola che ti conduce e che dentro ti brucia: Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri! Ogni burrone sarà riempito, ogni monte e ogni colle sarà abbassato; le vie tortuose diverranno diritte e quelle impervie, spianate. Ogni uomo vedrà la salvezza di Dio!”.

Sul Giordano luogo del passaggio alla terra promessa, Giovanni proclama un battesimo. Le prime parole che dice sono quelle del profeta Isaia, che annuncia, in un momento di grande disperazione, quando il popolo è schiavo a Babilonia – schiavo per colpa propria e in esilio per il suo peccato, che è possibile uscire da questo esilio, da questo male. E allora dice di preparare la via del ritorno verso la terra promessa. La terra promessa è la via di cui bisogna far dritti i sentieri, colmare i burroni, spianare le colline, far dritte le vie storte. Questo va fatto per fare una strada decente.

Il punto d’arrivo qual è? Ogni carne veda la salvezza di Dio. La salvezza di Dio è per ogni carne, per ogni uomo. La salvezza è per l’uomo. Ogni carne vedrà la salvezza di Dio. Si arriva alla contemplazione, al gusto della salvezza.

Allora perché la figura di Giovanni per noi in questa seconda domenica di avvento; perché il Battista è semplicemente un indice puntato su Colui che sta per venire. Se hai la grazia di incontrare un uomo così, che da come vive e come parla, non è preoccupato di sé, ma subito ti proietta verso l'altro che viene o già ti sta accanto, allora scatta anche per te la grande occasione. E se trovi un uomo fatto così, che ti fa ancora sognare, allora non fai alcuna fatica a stargli accanto e senza forzature lo introduci nel segreto del tuo cuore. Lo tempesti di domande, chiedendogli comprensione e lumi.

Luca parla di folle di persone che gli chiedono cosa possono fare, e Giovanni risponde a tutti in modo appropriato, sapendo dare a ciascuno la risposta più adatta e diretta. C'è quindi un esercizio che tutti possiamo fare: prendere sul serio l'altro mentre ci sta parlando, mentre semplicemente, per un bisogno del cuore, ti sta regalando qualcosa di sé, si sta compromettendo con te e tu decentrato sei concentrato sull’altro. Essere ascoltati è la speranza di ogni uomo, ed anche la nostra.


domenica 28 novembre 2021

La vigilanza degli amici di Dio

 

 I Domenica di Avvento anno C – 28 novembre 2021 

 


Dal Vangelo di Luca (21,25-28.34-36)

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli:
«Vi saranno segni nel sole, nella luna e nelle stelle, e sulla terra angoscia di popoli in ansia per il fragore del mare e dei flutti, mentre gli uomini moriranno per la paura e per l’attesa di ciò che dovrà accadere sulla terra. Le potenze dei cieli infatti saranno sconvolte.
Allora vedranno il Figlio dell’uomo venire su una nube con grande potenza e gloria.
Quando cominceranno ad accadere queste cose, risollevatevi e alzate il capo, perché la vostra liberazione è vicina.
State attenti a voi stessi, che i vostri cuori non si appesantiscano in dissipazioni, ubriachezze e affanni della vita e che quel giorno non vi piombi addosso all’improvviso; come un laccio infatti esso si abbatterà sopra tutti coloro che abitano sulla faccia di tutta la terra. Vegliate in ogni momento pregando, perché abbiate la forza di sfuggire a tutto ciò che sta per accadere, e di comparire davanti al Figlio dell’uomo».

 

 

 COMMENTO a cura di PennaSpuntata

 
Ogni volta che la liturgia dell’Avvento ci propone quel brano del Vangelo che abbiamo ascoltato oggi, io (che sono una storica di professione, e studio la religiosità e il folklore attraverso i secoli) sento il pensiero correre immediatamente a quel misterioso ciclo di segni prodigiosi si manifestarono nei cieli dell’Europa tra il XVI e il XVII secolo.

«Vi saranno segni nel sole, nella luna e nelle stelle», si legge nel Vangelo – e a giudicare le cronache dell’epoca, sembrava che quei segni fossero cominciati per davvero.
Nel 1547, gli abitanti del Württenberg riportarono di aver visto comparire in cielo una gigantesca spada sanguinante. Nel 1583, il cielo di Londra si riempì di costellazioni che nessuno aveva mai visto prima (o così, almeno, assicurano numerosi testimoni) mentre raggi di luce attraversavano la volta celeste, simili a frecce scoccate da un arco. Nel 1628, gli abitanti del Berkshire sollevarono lo sguardo al cielo attirati da un fragore, simile a quello di artiglieria, che sembrava provenire da sopra le nuvole, scoprendo che delle entità indistinte stavano combattendo una feroce battaglia sulle loro teste. Una visione un po’ inquietante, fortunatamente compensata da quella che graziò nel 1642 gli abitanti del Suffolk, i quali ebbero il non comune privilegio di sentirsi offrire un concertino da una orchestra d’angeli che li deliziò suonando strumenti a corda. E potrei andare avanti molto a lungo, citando caso dopo caso: i tre soli che illuminarono i cieli del Sussex a più riprese negli anni ’50 del Seicento; i draghi che volteggiarono sul Belgio nel 1579… i cieli erano un posto molto frequentato, all’apparenza.

Ovviamente, nel leggere queste testimonianze, lo storico non può che farsi una domanda: ma cos’è che stavano vedendo veramente, questi poveretti? Probabilmente, nulla di diverso da ciò che ancor oggi spinge molti di noi a scambiare per avvistamenti UFO fenomeni che, ad una attenta analisi, risultano perfettamente spiegabili in termini naturali. Quasi sicuramente, anche all’epoca accadeva qualcosa di molto simile, con l’unica differenza che, là dove noi vediamo una astronave aliena, gli uomini del passato scorgevano fenomeni che riflettevano la loro cultura, le loro preoccupazioni, le loro ansie apocalittiche. In effetti, in quei secoli, si respirava per davvero un’aria che profumava d’Apocalisse imminente: straziata dalle divisioni religiose, minacciata dai Turchi che premevano da est, pronta a precipitare nella Guerra dei Trent’Anni, l’Europa non stava vivendo un bel momento.  

Però è interessante notare una cosa. A differenza di quanto accade oggi con gli avvistamenti UFO, la fascinazione per questi fenomeni non era circoscritta a una specifica fascia sociale. Vale a dire: a queste apparizioni prestavano credito un po’ tutti, dai contadini creduloni su su fino agli studiosi e agli esponenti del clero. Capita frequentemente di leggere nei sermoni d’epoca riferimenti a questi “araldi del Signore” apparsi qua e là nel cielo, col fine evidente di trasmettere un messaggio. Per utilizzare una efficace immagine che spesso appariva nelle omelie dell’epoca, queste apparizioni era sermoni che Dio aveva voluto scrivere nel cielo, al fine di renderle visibili al massimo numero possibile di persone. Insomma, erano fenomeni che davvero portavano a compimento ciò che Gesù aveva promesso ai suoi discepoli:

«Vi saranno segni nel sole, nella luna e nelle stelle, e sulla terra angoscia di popoli in ansia per il fragore del mare e dei flutti, mentre gli uomini moriranno per la paura e per l'attesa di ciò che dovrà accadere sulla terra. Le potenze dei cieli infatti saranno sconvolte. Allora vedranno il Figlio dell'uomo venire su una nube con grande potenza e gloria. Quando cominceranno ad accadere queste cose, risollevatevi e alzate il capo, perché la vostra liberazione è vicina».

Fortunatamente, i nostri antenati avevano frainteso: non era quella la fine dei tempi e il mondo era destinato ad andare avanti ancora per un po’. E qui lo storico dovrebbe probabilmente commentare scrivendo che, in fin dei conti, questi fenomeni erano un segno dei tempi, che molto ci dicono riguardo la mentalità e le ansie di quel periodo.
Quello però lo direbbe lo storico. Abbandonando invece per un attimo i panni della professionista, chi scrive si sentirebbe invece di fare questa riflessione: sotto un certo punto di vista, fanno pure invidia, però, questi nostri antenati.
A loro bastava vedere in cielo qualche luce strana o qualche nuvola dalla forma suggestiva, e immediatamente il pensiero correva alla venuta di Gesù. Quanta dimestichezza dovevano avere con le promesse fatte dai Vangeli; e con quanta fiducia dovevano attenderne la loro realizzazione, in un futuro prossimo e vicino!

Certo: le attendevano con una intensità tale da far prendere loro lucciole per lanterne, almeno in questo caso. Ma di tanto in tanto penso che vorrei avercela, un po’ di quella loro fede così granitica che sussurrava loro ogni giorno “il Signore è vicino!”. Quanto doveva essere più profondo e più sentito il loro modo di vivere l’Avvento. Magari senza darci agli avvistamenti UFO, ma sarebbe probabilmente caso di tentare di imitarli.


sabato 20 novembre 2021

IN CHRISTO STAT VIRTUS

 

XXXIV Domenica TO/B, Solennità di Cristo Re – 21novembre 2021 –


Dal Vangelo di Giovanni (18,33-37) 

In quel tempo, Pilato disse a Gesù: «Sei tu il re dei Giudei?». Gesù rispose: «Dici questo da te, oppure altri ti hanno parlato di me?». Pilato disse: «Sono forse io Giudeo? La tua gente e i capi dei sacerdoti ti hanno consegnato a me. Che cosa hai fatto?». 

Rispose Gesù: «Il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei; ma il mio regno non è di quaggiù». 

Allora Pilato gli disse: «Dunque tu sei re?». Rispose Gesù: «Tu lo dici: io sono re. Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per dare testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce».

 Commento a cura di Serena Lambertucci

C’è un antico detto latino, “in medio stat virtus”, che nella tradizione italiana è comunemente tradotto come “la verità sta nel mezzo”. Non mi sono mai trovata d’accordo con questa affermazione: una sua lettura superficiale può portare a credere che, alla fine, la cosa migliore sia trovare un compromesso in ogni cosa, senza mai schierarsi. Il mio disaccordo è aumentato esponenzialmente dopo che ho incontrato Gesù, perché ho capito che la soluzione non sta mai “nel mezzo”, perché rimanere nel mezzo spesso significa fare la scelta più sicura per uscirne sani e salvi, e Lui ci ammonisce chiaramente: “Chi cercherà di salvare la propria vita, la perderà”.

Se questo non è sufficiente, accorre in nostro soccorso il Vangelo di questa domenica, nella quale contempliamo Cristo Re dell’Universo. Immaginiamo la scena: Gesù è stato consegnato a Pilato per una sentenza definitiva: “Cristo è o non è il re dei Giudei?”. Ricordate la storia di Erode e la strage di bambini maschi primogeniti per sbarazzarsi del nuovo, mistico e salvifico “Re dei Giudei” appena nato? Ecco, la storia del re va avanti da allora: sono passati circa trentatré anni ed ora Gesù si trova davanti alla massima autorità civile, che deve decidere sulla sua vita: o libero, o morto crocifisso.

Una qualsiasi persona normale, davanti alla sola, remota ipotesi della pena di morte peggiore che si potesse immaginare all’epoca, destinata ai criminali più criminali della società, avrebbe ritrattato. Invece Gesù no. Anzi, Lui confessa: «Il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei; ma il mio regno non è di quaggiù. […] Tu lo dici: io sono re. Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per dare testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce». Dice queste parole come se fossero il sillogismo più naturale e scontato del mondo. Attesta e conferma di essere Re per ben tre volte, venuto nel mondo non solo per dire la verità, ma per testimoniarla.

Gesù si schiera dalla parte della Verità, non sta fermo nel mezzo. Non si ferma a dire: “Lo dici tu che sono re, mica io”. Non nega l’evidenza. Così come rimane fedele alla testimonianza per la quale è venuto nel mondo: l’amore incondizionato alla fine salva e sconfigge anche la morte, perché l’Amore è più forte della morte.

Riconoscere Cristo Re dell’Universo significa ascoltare quelle parole da Lui pronunciate negli ultimi frangenti della sua vita terrena, tatuarsele nel cuore e riempirle di significato. Significa sconvolgere quell’idea di regalità aurea, ricca e intoccabile in favore di una regalità umile e mite, che si fa umana, si spoglia e si lascia maltrattare per Amore, fino a morire. 

Significa, infine, ascoltare la Sua voce che ci chiama figli, quell’unica voce fuori dal mondo che ci dà dignità e ci può definire.

Significa schierarsi e testimoniare il nostro senso di appartenenza a Cristo senza la paura e la vergogna della croce, ma con la speranza della risurrezione e della felicità eterna.

Perché la verità non sta in un indefinito “mezzo”: la Verità sta in Cristo.

domenica 14 novembre 2021

Il momento di perdere i miti


XXXIII Domenica del Tempo Ordinario, anno B – 14 novembre 2021

    

Dal Vangelo di Marco (13,24-32) 

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: 

«In quei giorni, dopo quella tribolazione,

il sole si oscurerà,

la luna non darà più la sua luce,

le stelle cadranno dal cielo

e le potenze che sono nei cieli saranno sconvolte.

Allora vedranno il Figlio dell’uomo venire sulle nubi con grande potenza e gloria. Egli manderà gli angeli e radunerà i suoi eletti dai quattro venti, dall’estremità della terra fino all’estremità del cielo.

Dalla pianta di fico imparate la parabola: quando ormai il suo ramo diventa tenero e spuntano le foglie, sapete che l’estate è vicina. Così anche voi: quando vedrete accadere queste cose, sappiate che egli è vicino, è alle porte. 

In verità io vi dico: non passerà questa generazione prima che tutto questo avvenga. Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno. 

Quanto però a quel giorno o a quell’ora, nessuno lo sa, né gli angeli nel cielo né il Figlio, eccetto il Padre».




Commento a cura di Claudio Spurio

“Il sole si oscurerà e la luna non darà più la sua luce, le stelle cadranno dal cielo e le potenze che sono nei cieli saranno sconvolte".

Ci sarà un momento, dice il Vangelo, in cui l’umanità perderà tutti i suoi riferimenti e prevarrà il caos. Niente di ciò che era o sembrava illuminante potrà più essere preso da “guida".

Il sole, la luna, le stelle sono i mezzi astronomici per l'orientamento, ci danno le coordinate fondamentali e imprescindibili che ci sostengono nel viaggio della vita. Come fa un navigante in mare ad orientarsi senza il sole, senza ciò che indica i poli? Come fa a trovare il nord di notte senza la stella polare? Come fa a calcolare la rotta senza le costellazioni?

Non può: è il caos. Così sarà della Chiesa e del mondo negli ultimi tempi (non è forse anche questo tempo un po’ così?) 

Così è anche per chi decide di seguire il Cristo da vicino.

Arriva un momento in cui chi dovrebbe guidare, dare il passo e l'esempio si oscura, cade anche lui. Nessun riferimento umano brilla a dare segni sul cammino, anzi “le potenze sono sconvolte". Come navigare allora? Come orientarsi? 

Nella vita di ogni cristiano arriva il tempo della delusione e del caos, quella in cui ci si trova privi di riferimenti. Per ogni cristiano arriva il momento di “perdere i miti”, il momento di “perdere ogni fiducia umana". E se questo momento non arriva il cammino cristiano è acerbo. E può esserlo tutta la vita. 

Arriva il tempo di “demistificare" la realtà e assumersi la responsabilità di radunare, consolare, curare i piccoli, gli esclusi, i poveri (gli eletti) invece che continuare a cantare inni di gloria a potenze cadute. Papa Francesco ha già segnato da tempo la caduta delle potenze autoreferenziali, invitando ad una Chiesa povera che raduna. Povera perché raduna i poveri per condividere la vita con loro.

Arriva dunque il tempo della corruzione, oppure il tempo di aprire finalmente gli occhi su di essa. E proprio questo può essere un momento molto propizio. Può essere il momento in cui il ramo diventa tenero e spuntano le foglie. In questo momento può germogliare qualcosa di grande. Se lasciamo che questa prova e questa tribolazione siano feconde nelle profondità dell'anima può germogliare l'unico vero frutto: la fede. La fede che Egli, unica roccia della nostra vita, è vicino. Di più: ci è vicino ora.


venerdì 5 novembre 2021

La gioia della restituzione

 

Commento al Vangelo della XXXII Domenica del Tempo Ordinario, anno B – 7 novembre 2021, 


Dal Vangelo di Marco (12,38-44) 

In quel tempo, Gesù [nel tempio] diceva alla folla nel suo insegnamento: «Guardatevi dagli scribi, che amano passeggiare in lunghe vesti, ricevere saluti nelle piazze, avere i primi seggi nelle sinagoghe e i primi posti nei banchetti. Divorano le case delle vedove e pregano a lungo per farsi vedere. Essi riceveranno una condanna più severa».

Seduto di fronte al tesoro, osservava come la folla vi gettava monete. Tanti ricchi ne gettavano molte. Ma, venuta una vedova povera, vi gettò due monetine, che fanno un soldo. 

Allora, chiamati a sé i suoi discepoli, disse loro: «In verità io vi dico: questa vedova, così povera, ha gettato nel tesoro più di tutti gli altri. Tutti infatti hanno gettato parte del loro superfluo. Lei invece, nella sua miseria, vi ha gettato tutto quello che aveva, tutto quanto aveva per vivere».





Commento a cura di Benedetta Dui da Jesi, redazione on line www.legraindeble.it

Offertorio ovvero restituzione

Il vangelo di questa domenica mi fa pensare a un momento preciso della celebrazione eucaristica e risveglia in me il ricordo di un’esperienza particolare vissuta qualche anno fa.

Ero al Sermig di Torino per un ritiro organizzato dai frati cappuccini. I volontari della struttura ci spiegarono che lì al Sermig si è soliti chiamare l’offertorio, (ovvero quando si ha il passaggio del cestino per la raccolta delle offerte e la presentazione dei doni), con il nome di ‘restituzione’. Ricordo bene infatti che durante la Santa Messa che celebrammo, ci fu chiesto di passarci gli uni gli altri un sacchetto contenente le offerte, che ciascuno era invitato in prima persona a tenere per qualche secondo in mano, prima di passarlo al vicino. Il senso era questo: anche se un fedele non poteva lasciare alcun soldo all’interno, era comunque chiamato a prendersi qualche secondo per ‘restituire’ simbolicamente in quel sacchetto ciò che aveva certamente ricevuto da Dio nell’arco della giornata o della settimana. 

Allora la prima domanda che mi cresce nel cuore è: Cosa posso restituire io al tesoro?

Farsi poveri per donare

Un dono è vero quando è libero, gratuito, quando non pretende un contraccambio, quando comporta una perdita magari faticosa ma che facciamo con la gioia nel cuore, perché sappiamo che il destinatario del dono è più importante del dono stesso. 

Non è un caso che la donna del vangelo oltre ad essere vedova sia anche povera perché in effetti si può davvero amare ed essere beati solo quando si ha un cuore povero… Allora non sarebbe bello se ogni tanto chiedessimo allo Spirito Santo di aiutarci a impoverirci di qualcosa? Non occorre pensare a doni eclatanti e impossibili da fare, ma bastano quelle ‘due monetine’. Bastano quei 5 minuti in cui chiedo a un'amica come sta. Basta offrire un passaggio in macchina a un fratello bisognoso, o mandare un messaggio solo per dire grazie, o dire una preghiera di cuore.

Basta credere che Dio sia il nostro tesoro e che nulla sia più importante di Lui e della carità verso il prossimo. Questo è il punto di partenza per mettere in pratica il comandamento di Gesù.

Una beata che ci è riuscita è stata Sandra Sabattini. Gli amici raccontano che era solita far loro dei regali che lei stessa realizzava: doni semplici, poveri, che però diventavano un modo unico e creativo per dir loro: ‘vi voglio bene’. 

Vi lascio il link di una canzone per la meditazione personale: ‘Cosa offrirti’ (https://www.youtube.com/watch?v=mdvOucpzet0).

Che il nostro cuore possa riconoscere in Dio un tesoro, a cui cantare ogni giorno: Il mio unico bene sei solo Tu, solo Tu.


sabato 30 ottobre 2021

Un comandamento 'su misura'

 

Commento al Vangelo della XXXI Domenica del Tempo Ordinario – anno B – 31 ottobre 2021, a cura di Elisabetta Corsi di Fermo


Dal Vangelo secondo Marco (12,28-34)

In quel tempo, si avvicinò a Gesù uno degli scribi e gli domandò: «Qual è il primo di tutti i comandamenti?». 

Gesù rispose: «Il primo è: “Ascolta, Israele! Il Signore nostro Dio è l’unico Signore; amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza”. Il secondo è questo: “Amerai il tuo prossimo come te stesso”. Non c’è altro comandamento più grande di questi». 

Lo scriba gli disse: «Hai detto bene, Maestro, e secondo verità, che Egli è unico e non vi è altri all’infuori di lui; amarlo con tutto il cuore, con tutta l’intelligenza e con tutta la forza e amare il prossimo come se stesso vale più di tutti gli olocausti e i sacrifici». 

Vedendo che egli aveva risposto saggiamente, Gesù gli disse: «Non sei lontano dal regno di Dio». E nessuno aveva più il coraggio di interrogarlo.




Commento

La Parola di Dio di questa domenica la sento particolarmente vicina, sia perché mi ha accompagnato per un bel tratto di strada sia perché mi ha liberato da una variante del perfezionismo.

Qui sta il genio di Marco, l'evangelista, nell'introdurre un pronome possessivo come 'tuo'; a volte infatti possiamo cadere nell'illusione che per amare ci sia bisogno di uno sforzo sovrumano, eroico.

La buona notizia di oggi è questa: è più che sufficiente che tu faccia il massimo delle tue possibilità, al massimo della tua anima, al massimo della tua mente, del tuo cuore. Non guardare troppo agli altri ma ama e se, come accade a tutti, non hai dato tutto, ricomincia perché la prossima volta, se perseveri, andrà meglio. Non fissare con tristezza ciò che manca ma gioisci di quello che hai donato perché "Il Signore ama chi dona con gioia".

Buona domenica in Cristo!

sabato 23 ottobre 2021

Mendicanti dell’amore di Cristo: la storia di Bartimeo

Commento al Vangelo della XXX Domenica del Tempo Ordinario – anno B -  24 ottobre 2021

a cura di Elisabetta Corsi da Fermo


Dal Vangelo di Marco (10,46-52)

In quel tempo, mentre Gesù partiva da Gèrico insieme ai suoi discepoli e a molta folla, il figlio di Timèo, Bartimèo, che era cieco, sedeva lungo la strada a mendicare. Sentendo che era Gesù Nazareno, cominciò a gridare e a dire: «Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me!». 

Molti lo rimproveravano perché tacesse, ma egli gridava ancora più forte: «Figlio di Davide, abbi pietà di me!». 

Gesù si fermò e disse: «Chiamatelo!». Chiamarono il cieco, dicendogli: «Coraggio! Àlzati, ti chiama!». Egli, gettato via il suo mantello, balzò in piedi e venne da Gesù. 

Allora Gesù gli disse: «Che cosa vuoi che io faccia per te?». E il cieco gli rispose: «Rabbunì, che io veda di nuovo!». E Gesù gli disse: «Va’, la tua fede ti ha salvato». E subito vide di nuovo e lo seguiva lungo la strada.



Commento

Bar-Timeo

Il vangelo di questa domenica presenta il personaggio che benefica della guarigione di Cristo attraverso queste parole:  ὁ υἱὸς Τιμαίου Βαρτιμαῖος (tr. o iòs Timéu Bartiméos), ‘il figlio di Timeo Bartimeo’. Se si scioglie ancora il nome proprio Bar-timeo e si traducono le sue componenti, la pericope risultante è, di nuovo, ‘figlio (bar) di Timeo’. Bartimeo è un uomo senza nome, il suo esserci coincide con il suo essere figlio di un  padre di cui, neppure, viene detto nulla. Bartimeo è, ancora, τυφλὸς (tiflòs), ‘cieco’ e προσαιτής (prosaitìs), ‘mendicante’ ed ‘era seduto accanto alla via’. 

Un avvenimento

Nella vita di quest’uomo, descritta come privata di identità, come una vita immersa nelle tenebre della cecità, una vita che mendica per sopravvivere, avviene un fatto. Ἰησοῦς ὁ Ναζαρηνός ἐστιν (Isùs o Nazarinòs estin), letteralmente ‘Gesù il Nazzareno è’. Nella vita di Bartimeo avviene Cristo. Bartimeo non può vederlo, e Gesù si manifesta al suo udire. Bartimeo, sul ciglio della via, sente che la Via è giunta a guarire la sua esistenza e riempie di parole e di grida lo spazio vuoto che lo separa dal Nazzareno. ‘Figlio di David, Gesù, abbi pietà di me’. Il ‘figlio di Timeo’ chiama Gesù ‘figlio di David’, lo chiama con il proprio nome, con l’unico linguaggio che conosce. Eppure sa che Gesù è Gesù, unica vera sostanza della propria vita.

Ti chiama

Cosa fa Gesù? Gesù dice: Φωνήσατε αὐτόν (Fonìsate avtòn), letteralmente, ‘Inviate a lui la voce’. È come se stesse dicendo agli astanti: ‘Siate miei testimoni presso di lui’. E la folla va da Bartimeo e gli dice: ‘Abbi coraggio, alzati, ti chiama’. Gesù si manifesta a noi, come a Bartimeo, per mezzo di una folla, la folla di coloro che hanno scelto la via del suo amore. Impauriti dalla vita, ciechi di fronte al nostro destino, mendicanti e cercatori della vera gioia, attendiamo l’avvenimento di Cristo. Ma poi un volto, pieno di vita, ci chiama e ci fa volgere lo sguardo alla stessa sorgente di Luce da cui è stato chiamato. 

Che io veda di nuovo

Cosa chiede Bartimeo? ἵνα ἀναβλέψω (ina anavlépso), ‘Che io veda di nuovo’. Non chiede soltanto di vedere, ma di vedere di nuovo. Perché Gesù non si conosce, ma si ri-conosce, perché sostanza della nostra sostanza, eternità della nostra conoscenza. La storia di Bartimeo suscita in me tante domande, nel mio sentirmi mendicante dell’amore di Cristo: 

1. Riesco a cogliere davvero la bellezza dell’incontro con il Signore?

2. Cristo è davvero 'avvenuto' nella mia vita?

3. Riesco a riconoscerlo nella folla di chi mi chiama a guardarLo?

Che il Signore possa illuminarci e sorridere della sua bellezza alla nostra vita - che cerca soltanto Lui -.

venerdì 30 luglio 2021

Ascolta la tua “fame”

 

Commento al Vangelo della XVIII Domenica del TO anno B – 1 agosto 2021 a cura di Paride Petrocchi da Offida - redazione on line www.legraindeble.it


Dal Vangelo di Giovanni (6,24-35)

In quel tempo, quando la folla vide che Gesù non era più là e nemmeno i suoi discepoli, salì sulle barche e si diresse alla volta di Cafàrnao alla ricerca di Gesù. Lo trovarono di là dal mare e gli dissero: «Rabbì, quando sei venuto qua?».

Gesù rispose loro: «In verità, in verità io vi dico: voi mi cercate non perché avete visto dei segni, ma perché avete mangiato di quei pani e vi siete saziati. Datevi da fare non per il cibo che non dura, ma per il cibo che rimane per la vita eterna e che il Figlio dell’uomo vi darà. Perché su di lui il Padre, Dio, ha messo il suo sigillo». 

Gli dissero allora: «Che cosa dobbiamo compiere per fare le opere di Dio?». Gesù rispose loro: «Questa è l’opera di Dio: che crediate in colui che egli ha mandato».

Allora gli dissero: «Quale segno tu compi perché vediamo e ti crediamo? Quale opera fai? I nostri padri hanno mangiato la manna nel deserto, come sta scritto: “Diede loro da mangiare un pane dal cielo”». Rispose loro Gesù: «In verità, in verità io vi dico: non è Mosè che vi ha dato il pane dal cielo, ma è il Padre mio che vi dà il pane dal cielo, quello vero. Infatti il pane di Dio è colui che discende dal cielo e dà la vita al mondo». 

Allora gli dissero: «Signore, dacci sempre questo pane». Gesù rispose loro: «Io sono il pane della vita; chi viene a me non avrà fame e chi crede in me non avrà sete, mai!»





Commento

La “fame” sembra essere la protagonista della Parola di questa prima domenica di Agosto: la fame degli israeliti nel deserto, la fame della folla al seguito di Gesù.

In realtà al centro dell’attenzione non c’è tanto la fame in sé e per sé ma le scelte che la fame stessa scatena; in un primo caso fanno sorgere una mormorazione potente, nel secondo una sequela interessata.

E noi cosa facciamo quando abbiamo “fame”? A prima vista può sembrare una domanda oltremodo sciocca: quando abbiamo fame, semplicemente mangiamo, in realtà dalla risposta a questa “fame” dipende la qualità della nostra vita.

Esistono molti tipi di “fame”: la “fame” di cibo, di riconoscimento, di successo, di soldi, di affetto e così via. Se subito acconsentiamo ad ogni specie di “fame”, presto diventeremo grassi ed insoddisfatti.

A me capita spesso, senza rendermene conto, mi affatico per colmare un “vuoto”, mi affanno per dare risposta ad una “fame” ma poi quel “cibo” non sazia ed allora, con un po’ di amarezza e tristezza, mi guardo indietro e mi dico: “Forse quella non era fame vera ma un semplice capriccio”.

Quante volte ci avventuriamo con caparbietà su strade che poi ci portano a vicoli ciechi, arrivati alla meta apriamo gli occhi ed ecco l’amara consapevolezza di aver seguito un fantasma, un idolo, un’illusione?

Ecco perché diviene essenziale ascoltare la propria fame, per non affannarsi inutilmente su sentieri che non portano a nulla o meglio portano a cibi che non saziano, a cibi che riempiono al momento ma che poi lasciano un vuoto ancora più grande.

Davanti a noi abbiamo il tempo delle vacanze, tempo propizio per guardarsi dentro e capire cosa veramente ci spinge, quale bisogno o desiderio traina le nostre giornate.

Buon ascolto.


venerdì 23 luglio 2021

Quattro pani più uno


 Commento al Vangelo della XVII Domenica del TO/B – 25 luglio 2021                          (a cura di Benedetta Dui da Jesi)



Dal Vangelo di Giovanni (6,1-15) 

In quel tempo, Gesù passò all’altra riva del mare di Galilea, cioè di Tiberìade, e lo seguiva una grande folla, perché vedeva i segni che compiva sugli infermi. Gesù salì sul monte e là si pose a sedere con i suoi discepoli. Era vicina la Pasqua, la festa dei Giudei. 

Allora Gesù, alzàti gli occhi, vide che una grande folla veniva da lui e disse a Filippo: «Dove potremo comprare il pane perché costoro abbiano da mangiare?». Diceva così per metterlo alla prova; egli infatti sapeva quello che stava per compiere. Gli rispose Filippo: «Duecento denari di pane non sono sufficienti neppure perché ognuno possa riceverne un pezzo». 

Gli disse allora uno dei suoi discepoli, Andrea, fratello di Simon Pietro: «C’è qui un ragazzo che ha cinque pani d’orzo e due pesci; ma che cos’è questo per tanta gente?». Rispose Gesù: «Fateli sedere». C’era molta erba in quel luogo. Si misero dunque a sedere ed erano circa cinquemila uomini. 

Allora Gesù prese i pani e, dopo aver reso grazie, li diede a quelli che erano seduti, e lo stesso fece dei pesci, quanto ne volevano. 

E quando furono saziati, disse ai suoi discepoli: «Raccogliete i pezzi avanzati, perché nulla vada perduto». Li raccolsero e riempirono dodici canestri con i pezzi dei cinque pani d’orzo, avanzati a coloro che avevano mangiato.

Allora la gente, visto il segno che egli aveva compiuto, diceva: «Questi è davvero il profeta, colui che viene nel mondo!». Ma Gesù, sapendo che venivano a prenderlo per farlo re, si ritirò di nuovo sul monte, lui da solo.

Commento

Eccoci davanti al miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci, uno dei più famosi operati da Gesù. Lo conosciamo a memoria. L’abbiamo ascoltato milioni di volte, che altro può dirci questa Parola?

Se c’è una cosa che abbiamo bisogno di reimparare ogni volta è che la Parola di Dio ci raggiunge sempre in modo nuovo e con la sua radicalità sa sradicare la nostra visione spesso mediocre della vita o della fede. C'è sempre una novità che il Signore vuole comunicarci e donarci personalmente: una Parola fatta su misura per ciascuno di noi. Una Parola che attende di vestire la nostra vita. Perciò di fronte al vangelo più noto, occorre buttar via la nostra presunzione di sapere già come andrà a finire, per metterci umilmente in ascolto e in dialogo con Cristo.

Questione di dialogo…

La prima cosa che salta agli occhi meditando il vangelo di Gv 6, 1-15, è la domanda di Gesù, cui segue la risposta di Filippo.

Gesù: «Dove potremo comprare il pane perché costoro abbiano da mangiare?».

Filippo: «Duecento denari di pane non sono sufficienti neppure perché ognuno possa riceverne un pezzo».

C’è qualcosa di strano, non trovate? Sembra che Filippo non tenga conto della domanda di Gesù che mica gli aveva chiesto un quanto!, gli aveva chiesto un dove! Il discepolo sembra non ascoltare con il cuore la domanda postagli dal Maestro. Resta chiuso, fermo nella sua prospettiva, nella sua personale visione delle cose, senza aprirsi a una Parola che vuole portarlo oltre. E così se ne esce con questa risposta che sembra la conclusione di un suo ragionamento taciuto, non espresso, privo di prospettive positive. È un po' come se dicesse: «Guarda, Signore, è meglio che lasci perdere. Qua il problema non è tanto il dove perché il pane costa dovunque e, nel caso non te ne fossi accorto, a noi ci mancano proprio i soldi!».

Ecco Filippo è uno che parte prevenuto e altroché se ci somiglia! Lui non si mette in un vero dialogo con Gesù, rimane un po' sulle sue, con il cuore paralizzato sull'impossibile. Anziché partire da Gesù, Filippo parte da se stesso e non può trovare alcuna buona soluzione. Invece quanto è più saggio partire sempre da Gesù in qualunque situazione veniamo a trovarci.

Sei caoticamente confuso? Riparti da Gesù! Hai un dubbio assillante? Parlane con Gesù! Ti senti solo o abbandonato? Fatti abbracciare da Gesù! Hai bisogno di conforto? Dona a Gesù le tue lacrime.

Forse tante volte cediamo alla tentazione di piangerci un po’ addosso e finiamo con il dar voce a lamentele sterili. Ma indipendentemente da ciò che stiamo vivendo ora, il punto è chiedersi: "Quanto tempo è che non mi faccio una bella chiacchierata come si deve con Te, Signore, e non Ti ascolto di cuore?". Spesso è proprio in quell’assenza o pausa di dialogo con Cristo che si nasconde l’origine delle nostre ansie, paure, problemi.

…di pani e di pesci

Gesù ci insegna che anche per fare un miracolo, da qualche cosa bisogna partire. E Lui sceglie di partire da noi, da quel nostro poco, che forse troppo sbrigativamente consideriamo inutile, perfino ridicolo. Eppure se lo mettiamo nelle mani di Gesù, il nostro niente viene da Lui benedetto e porta frutti in abbondanza fino ad avanzare.

Ho conosciuto la storia di un architetto, Daniela, che ha progettato e aiutato a costruire una chiesa a Dianra-Village (in Costa d’Avorio). Vi invito a dare almeno una sbirciatina alle immagini nei seguenti link: 

http://www.piccolestelledafrica.org/lamissione.htm 

https://www.youtube.com/watch?v=OzU26fpFK8w.

 Ebbene tra i tanti mosaici realizzati in questa chiesa, ce n’è uno simpatico che mi è rimasto impresso. Ritrae i simboli del miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci: due pesci e quattro pani. “Ma come, non erano cinque i pani?” – viene da chiedersi. Daniela risponde: “Sì certo. Qui però ce ne sono quattro, perché il quinto è il tuo, è quello che porti tu”.

Augurando a tutti una Santa Domenica, vi lascio 'visitare' online la chiesa e ammirare la bellezza dei suoi volti, dei dipinti e dei mosaici, magari in compagnia della seguente domanda: qual è il quinto pane che posso offrire al Signore affinché Lui lo benedica e lo moltiplichi?


sabato 17 luglio 2021

"Prof, lei ci sarà?"... Insegnare per regalare la forza di una Presenza

 

Commento al Vangelo della XVI domenica del Tempo Ordinario 

– 18 luglio 2021 -

a cura di Milani prof.ssa Alessandra


Dal Vangelo di Marco (6,30-34) 

In quel tempo, gli apostoli si riunirono attorno a Gesù e gli riferirono tutto quello che avevano fatto e quello che avevano insegnato. Ed egli disse loro: «Venite in disparte, voi soli, in un luogo deserto, e riposatevi un po’». Erano infatti molti quelli che andavano e venivano e non avevano neanche il tempo di mangiare. 

Allora andarono con la barca verso un luogo deserto, in disparte. Molti però li videro partire e capirono, e da tutte le città accorsero là a piedi e li precedettero. 

Sceso dalla barca, egli vide una grande folla, ebbe compassione di loro, perché erano come pecore che non hanno pastore, e si mise a insegnare loro molte cose.






Commento


SI MISE AD INSEGNARE LORO MOLTE COSE

È il 4 giugno, ultimi giorni di scuola. Tento di dire ai miei studenti le ultime cose utili prima delle vacanze; cerco di attirare la loro attenzione ma Andrea mi interrompe bruscamente: “Prof, tanto io vengo bocciato; a cosa serve ancora studiare? Lei però ci sarà anche il prossimo anno e quindi ci vediamo di nuovo in primo”.

Colgo in quella esternazione tutta la lotta che sta vivendo: delusione, rassegnazione, rabbia contro sé stesso per non essersi impegnato e contro un sistema che sembra essersi arreso alla sua negligenza, incapace di incuriosire e suscitare desiderio di apprendere. Andrea è arrabbiato ma sembra che la sua rabbia trovi un appiglio nella certezza della mia presenza il prossimo anno. In questo anno abbiamo costruito un buon rapporto di fiducia, ma io non posso dire che ci sarò. Noi prof precari siamo soggetti alla tombola delle graduatorie. Basta un punto in più o in meno a decidere se e dove insegnerò.


ERANO COME PECORE CHE NON HANNO PASTORE

Questi ragazzi sono disorientati e delusi, immersi in mondi familiari disgregati, con parentele allargate, hanno due madri o due padri perché i genitori naturali si sono risposati e cercano negli occhi di chi li accompagna, anche di una prof, una risposta al loro desiderio di sentirsi unici, voluti, amati. 

A volte sono sballottati dentro derive culturali, ideologie, tendenze affettive reali che toccano nel profondo la loro persona come Maria che un giorno in classe ha fatto davanti a tutti l’esternazione della sua omosessualità.

Parlavamo delle vacanze e chiedevo loro come le avrebbero trascorse e Maria se ne è uscita provocatoria: “Io, prof, starò finalmente con la mia fidanzata”. Sono seguiti attimi in cui Maria ha ascoltato attentamente il mio silenzio. Un silenzio di non-giudizio che l’ha disorientata e poi ha continuato come se dovesse difendersi anche se nessuno l’aveva attaccata: “Prof, guardi che non c’è niente di male ad avere una compagna, ad essere omo”.

Avrei voluto chiederle cosa la legava alla sua fidanzata: vero amore, bisogno di comprensione, affinità, paura dell'altro sesso, sensazione di sicurezza, semplice emulazione oppure adesione ad un fenomeno culturale? 

Invece ho fatto tabula rasa di tutto: teorie, pregiudizi, analisi psicologiche, curiosità. Ho cancellato quella pretesa di comprensione, quell’analisi tecnica, quella conclusione morale che così tanto allontanano le persone. Maria era lì, viva, esposta al giudizio di tutti; una piccola donna originale e troppo unica per stare dentro qualche teoria. Così, come spesso faccio le ho posto una domanda che era semplice interesse a lei, per dirle: “Mi interessi tu e basta”. Ho chiesto serena: “È una cosa seria?”. Maria è rimasta spiazzata ma ha continuato ancora aggressiva: “Prof, sono solo due mesi che stiamo insieme. È poco tempo per capirlo sia se stai con un ragazzo, sia se stai con una ragazza”.

Ho imparato a fare da sponda alle rabbie dei miei studenti. Perché la rabbia ha bisogno di sponde, di ascolto, di presenza fiduciosa. Le parole non servono. Non si parte dai discorsi ma dal regalare la forza di una Presenza che colpisce nel fondo del cuore e suscita desiderio di apprendere, di farcela. Desiderio di vivere. 

Non è forse in-segnare un “segnare dentro”?

Al termine della lezione Maria mi si è avvicinata per dirmi che sarebbe venuta al corso estivo che organizzava la scuola.

“Prof, io ci sarò al corso. Lei ci sarà?” Stavolta ho potuto rispondere: “Si, ci sarò”.

Stavolta posso dire che vi accompagnerò per un altro pezzo di strada.


EBBE COMPASSIONE DI LORO

In questo anno mi sono chiesta quale fosse l’elemento che mi avrebbe permesso di entrare in sintonia con i miei studenti. Empatia? A me la questione dell'empatia convince poco. Ho studiato e letto molto sull’empatia ma ora sono ancora più certa che il segreto non è nella psicologia.

Cosa riempiva lo sguardo di Gesù di compassione? Cosa lo rendeva empatico, capace di arrivare al cuore della gente? 

Gesù riceve su di sé lo sguardo del Padre. Passa tanto tempo in preghiera per ricevere quello sguardo, per lasciarsi guardare e amare dal Padre. Riceve un amore totale, senza giudizio, tenerissimo. E quello sguardo che Lui riceve lo ridona a chi incontra. La gente si sente guardata da Gesù con lo sguardo del Padre. Forse Andrea, Maria e gli altri studenti hanno incontrato nel mio sguardo “lo sguardo del Padre”. Lo stesso sguardo che sento per me. Lo sguardo di un pastore-padre che veramente ha a cuore la mia vita e non mi lascia.

“Ebbe compassione di loro, perché erano come pecore senza pastore, e si mise ad insegnare loro molte cose".


giovedì 8 luglio 2021

Quello strappo nel cielo di carta

 

Commento al Vangelo della XV Domenica del TO – anno B – 11 luglio 2021


Dal Vangelo di Marco (6,7-13) 

In quel tempo, Gesù chiamò a sé i Dodici e prese a mandarli a due a due e dava loro potere sugli spiriti impuri. E ordinò loro di non prendere per il viaggio nient’altro che un bastone: né pane, né sacca, né denaro nella cintura; ma di calzare sandali e di non portare due tuniche. 

E diceva loro: «Dovunque entriate in una casa, rimanetevi finché non sarete partiti di lì. Se in qualche luogo non vi accogliessero e non vi ascoltassero, andatevene e scuotete la polvere sotto i vostri piedi come testimonianza per loro». 

Ed essi, partiti, proclamarono che la gente si convertisse, scacciavano molti demòni, ungevano con olio molti infermi e li guarivano.





Commento a cura di Paride Petrocchi, da Offida

“Beate le marionette – sospirai – su le cui teste di legno il finto cielo si conserva senza strappi! Non perplessità angosciose, né ritegni, né intoppi, né ombre, né pietà: nulla! E possono attendere bravamente e prender gusto alla loro commedia e amare e tener se stesse in considerazione e in pregio, senza soffrire mai di vertigini o capogiri, poiché per la loro statura e per le loro azioni quel cielo è un tetto proporzionato”

Così Pirandello in un suo celebro scritto, Il fu Mattia Pascal, descrive la vita beata delle marionette, una vita tra palco di legno e cielo di carta. Un’esistenza dove non trovano posto né angosce, né dubbi, né intoppi, né vertigini, né capogiri, una vita dove non trova posto… nulla!

Quanti di noi la sognano una vita come quelle delle marionette? In fondo al nostro cuore, forse, abita questa tentazione pseudo – paradisiaca per cui la vita sarebbe più godibile se non ci fossero grandi drammi da vivere, grandi scelte da fare, senza nessun imprevisto che venga a disturbare la nostra routine.

Forse questa perfezione artificiosa pervadeva il mandriano Amos, il giudeo Saulo, dodici uomini che trascorrevano la loro esistenza nella Palestina del tempo; non lo sappiamo, il Vangelo non ce lo racconta.

Poi un giorno, che loro bene ricordano, uno strappo nel cielo di carta, una Voce, o meglio la Voce:

“Va', profetizza al mio popolo Israele” oppure un “Perché mi perseguiti?” oppure ancora un “Seguimi”. Brevi esortazioni, un fremito di vento dall’effetto tellurico, tutto è diverso.

Uno era mandriano e coltivava sicomoro, un altro riscuoteva le tasse, altri quattro avevano appena finito a pescare, un altro leggeva e studiava le Scritture all’ombra del fico; immagine simbolica ed evocativa.

Mestieri forse estinti o in estinzione; noi siamo chini sulle carte, assorbiti dalla luce blu degli schermi dei pc o forse all’interno di uffici; tutti alla ricerca di una vita felice, perfetta, serena, magari senza scossoni.

A tutti viene rivolta la medesima domanda: abbiamo mai sperimentato questa irruzione travolgente e sconvolgente del divino nella nostra vita? Lo desideriamo questo “strappo nel nostro cielo di carta”?


lunedì 5 luglio 2021

La superbia e l’anima: la buona battaglia della fede

 

Commento del Vangelo della XIV Domenica del TO, anno B – 4 luglio 2021


Dal Vangelo secondo Marco (6,1-6)

In quel tempo, Gesù venne nella sua patria e i suoi discepoli lo seguirono.

Giunto il sabato, si mise a insegnare nella sinagoga. E molti, ascoltando, rimanevano stupiti e dicevano: «Da dove gli vengono queste cose? E che sapienza è quella che gli è stata data? E i prodigi come quelli compiuti dalle sue mani? Non è costui il falegname, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, di Ioses, di Giuda e di Simone? E le sue sorelle, non stanno qui da noi?». Ed era per loro motivo di scandalo.

Ma Gesù disse loro: «Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua». E lì non poteva compiere nessun prodigio, ma solo impose le mani a pochi malati e li guarì. E si meravigliava della loro incredulità.

Gesù percorreva i villaggi d’intorno, insegnando.



Commento a cura di Elisabetta Corsi da Fermo

«Voi siete già sazi, siete già diventati ricchi; senza di noi, siete già diventati re. Magari foste diventati re! Così anche noi potremmo regnare con voi. Ritengo infatti che Dio abbia messo noi, gli apostoli, all'ultimo posto, come condannati a morte, poiché siamo dati in spettacolo al mondo, agli angeli e agli uomini.» (1Cor. 4, 8-9)

La superbia

Come leggiamo in S. Paolo, il peccato primo e più grave dell’uomo è la superbia. Affaccendata in una esistenza superficiale, la superbia corre affannosamente per i sentieri dei nostri pensieri, si arrampica sulle pareti scoscese di ogni nostro vano affaticamento e incita alla fretta. Nel richiamarci verso le vette del mondo, vuole che il nostro sguardo interiore non guardi all’anima. Questa, languente e anelante il Cielo, continua a sperare di assediare la roccaforte del superbo inganno e ritornare in patria.

Vincere la battaglia

Tutta la liturgia di questa XIV domenica del Tempo Ordinario ripete all’anima in battaglia una semplice verità: la superbia non potrà vincere. Nella prima lettura, dice Ezechiele: ἐξῆρέν με καὶ ἔστησέν με ἐπὶ τοὺς πόδας μου (exéren me kai éstesen me epi tous pòdas mou), ovvero: «mi sollevò e mi fece stare dritto sui piedi». Il profeta, entrato nel mistero di Dio diviene profondamente consapevole del fatto che non può reggersi in piedi senza lo Spirito. L’anima allora diventa consapevole che non riuscirebbe a muovere un dito senza il soffio di Dio, senza sentire la vita del Vivente scorrere nelle sue vene. Forte di questa verità, sferra un colpo alla superbia che cade, vinta, al suolo.

Increduli

Ma per vincere, l’anima ha bisogno di credere. Noi, invece, patria del Cristo, sua Chiesa terrestre, siamo Nazaret incredula e lontana, che non si meraviglia, che non guarda all’esistenza con sguardo innamorato. Troppo indaffarata e orgogliosa, la nostra «vita si sdraia alle cose», come scrive Rebora nella poesia O pioggia feroce. Tutto diventa banale al nostro sguardo, nulla più ci meraviglia e non riusciamo a capire che istante per istante Dio prepara per noi un’esistenza terribilmente bella e che l’unico sforzo che possiamo fare è dire, sì, Signore. Ma, no, Signore, siamo ancora increduli.

Credenti

Cosa fai, allora, Padre Celeste, di fronte a questa nostra incredulità? Continua così, di rimando alla domanda, la poesia di Rebora: «mentre l’Eterno, in martirio di prove/ ci sembra spontanea purezza del vero/ […] tu operi come la morte/ dove immortale è il pensiero». L’amore trinitario percorre il martirio della via crucis, si carica di ogni nostra offesa alla carità, si consuma in tutte le nostre imperfezioni e glorifica la nostra vita e la libera dalla mortale dispersione. Perché, infine, possiamo cogliere la spontanea purezza della sua Verità. 


venerdì 18 giugno 2021

Sulla stessa barca

Commento al Vangelo della  XII Domenica del TO, anno B – 20 giugno 2021, a cura di Benedetta Dui da Jesi


Dal Vangelo di Marco (4,35-41) 

In quel giorno, venuta la sera, Gesù disse ai suoi discepoli: «Passiamo all’altra riva». E, congedata la folla, lo presero con sé, così com’era, nella barca. C’erano anche altre barche con lui. 

Ci fu una grande tempesta di vento e le onde si rovesciavano nella barca, tanto che ormai era piena. Egli se ne stava a poppa, sul cuscino, e dormiva. Allora lo svegliarono e gli dissero: «Maestro, non t’importa che siamo perduti?». 

Si destò, minacciò il vento e disse al mare: «Taci, calmati!». Il vento cessò e ci fu grande bonaccia. Poi disse loro: «Perché avete paura? Non avete ancora fede?». 

E furono presi da grande timore e si dicevano l’un l’altro: «Chi è dunque costui, che anche il vento e il mare gli obbediscono?»




Commento: 

La vita come una barca

È scesa la sera nel Vangelo di questa XII Domenica del Tempo Ordinario. È il momento di ormeggiare la barca e trovarsi una sistemazione per la notte. Mi immagino i discepoli stanchi morti che non vedono l’ora di distendersi da qualche parte e riposarsi finalmente. La giornata è stata strapiena. Gesù ha insegnato tremila cose e forse anche mentalmente i discepoli non Lo ‘reggono’ più tanto, per quanto siano comunque entusiasti di Lui.

Anche Gesù dev’essere stanco ma non esita a far loro una proposta inaspettata: «Passiamo all’altra riva». Gesù ha in mente qualcos’altro per loro. D’altronde un vero maestro come Lui, lo sa che prima di tutto viene la teoria, dopodiché, per assimilare la teoria, occorre fare pratica! 

Penso a tutte quelle volte in cui crediamo di aver fatto tutto, è giunta ‘la nostra sera’ cioè il momento in cui ci meritiamo un po’ di riposo, una pausa-relax che abbiamo intelligentemente programmato, e ci diciamo: “Oh! Adesso, fermi tutti ché finalmente si dorme!”. E invece… ci arriva quel messaggio, quella persona, quell’imprevisto, che scombussola i nostri piani. Eppure se Dio ci chiama a rinunciare a questi ultimi è perché non contano davvero: non saranno la mediocrità né la pigrizia a salvare la nostra barca nella tempesta. L'unico equipaggiamento che ci serve è Cristo. Abbiamo bisogno di cuori liberi e pronti a dire sì alla Sua Parola che, siamo sinceri, comporta da parte nostra una perdita (di tempo, di sicurezze, di riposo, …). In fondo però ci accorgiamo che i sì che diciamo al Signore tirano fuori il meglio da noi, ci fanno prendere la giusta direzione e trovare il senso della vita.

E così i discepoli, seppur sfiniti, mettono in pratica la Parola di Gesù e prendono il mare insieme a Lui. Accettano in sostanza di dare la priorità a un desiderio del Signore, anche strano e lì per lì poco sensato, piuttosto che obbedire al loro personale bisogno di riposare. Stanno imparando a morire a se stessi, a decentrare se stessi e a mettere al centro, al primo posto, la Parola di quel Gesù, che a malapena conoscono.

Si può perdere il sonno per qualcuno? Questo passo di Vangelo sembra risponderci: Sì, per amore si può e si deve.

Gesù: passeggero o capitano?

Gesù non pretende che noi capiamo tutto di Lui, certe volte Lui ci parla e noi non afferriamo il senso di ciò che ci dice, non sappiamo perché quella Parola la stia dicendo proprio a noi. Ciò che Gesù desidera è che Gli diamo fiducia e Lo accogliamo così com’è nella nostra barchetta, esattamente come fanno i discepoli: «Lo presero con sé, così com’era, nella barca».

L’episodio della tempesta sedata ci ricorda che Gesù non vuole essere un passeggero da traghettare nella nostra vita. Lui non vuole starsene in disparte a guardare o a dormire mentre le onde, gli eventi ci minacciano. Se lo fa, è perché non vuole imporsi e attende solo che noi lo svegliamo. Lui ama essere coinvolto in ciò che ci succede bello o brutto che sia, ama essere scomodato da quel cuscino dove talvolta lo releghiamo, ama sporcarsi le mani insieme a noi, ma noi glielo dobbiamo permettere! Non aspettiamo sempre di trovarci in mezzo alla tempesta o sull’orlo del precipizio per invocarlo. Chiamiamolo sempre. Affidiamoci sempre.

Se in qualche modo abbiamo incontrato il Signore nella nostra vita, oggi è il momento di farci tre domande:

Prendiamo sul serio le proposte di Gesù anche quando sono un po’ strampalate? 

Abbiamo mai pensato che Gesù voglia salire proprio sulla nostra barca, cioè voglia vivere insieme a noi la vita?

Lo trattiamo come se non ci sia? O meglio ancora: Gesù è per noi un passeggero o il capitano della nostra barca-vita?

Buona preghiera e buona Domenica!


domenica 6 giugno 2021

DOVE E’ LA MIA STANZA?


Domenica del Corpus Domini - 6 giugno 2021, anno B 


Dal Vangelo di Marco (14,12-16.22-26) 

Il primo giorno degli Àzzimi, quando si immolava la Pasqua, i discepoli dissero a Gesù: «Dove vuoi che andiamo a preparare, perché tu possa mangiare la Pasqua?». 

Allora mandò due dei suoi discepoli, dicendo loro: «Andate in città e vi verrà incontro un uomo con una brocca d’acqua; seguitelo. Là dove entrerà, dite al padrone di casa: “Il Maestro dice: Dov’è la mia stanza, in cui io possa mangiare la Pasqua con i miei discepoli?”. Egli vi mostrerà al piano superiore una grande sala, arredata e già pronta; lì preparate la cena per noi». 

I discepoli andarono e, entrati in città, trovarono come aveva detto loro e prepararono la Pasqua.

Mentre mangiavano, prese il pane e recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro, dicendo: «Prendete, questo è il mio corpo». Poi prese un calice e rese grazie, lo diede loro e ne bevvero tutti. E disse loro: «Questo è il mio sangue dell’alleanza, che è versato per molti. In verità io vi dico che non berrò mai più del frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo, nel regno di Dio».

Dopo aver cantato l’inno, uscirono verso il monte degli Ulivi.





COMMENTO a cura di Paride Petrocchi da Offida, redazione on line www.legraindeblé.it

Il tema della "stanza" non è affatto nuovo al panorama della spiritualità cristiana, basti pensare a quel bellissimo testo di Teresa d'Avila, Il castello interiore, dove vengono descritte sette stanze nella progressiva conoscenza e comunione con Dio.

Nel passo biblico di questa domenica del Corpus Domini, è lo stesso Gesù tramite due dei suoi discepoli che pone in essere questa domanda: Dov' è la mia stanza, in cui io possa mangiare la Pasqua insieme ai miei discepoli? (Mc 14, 14).

Il termine Pasqua è tra i più evocativi nella letteratura biblica, potremmo fermarci e soffermarci delle giornate intere a discutere di ciò, vorrei porre sotto i riflettori un particolare aspetto della Pasqua: l'alleanza. Per fare ciò facciamo un piccolo salto nelle pagine veterotestamentarie, più precisamente in Geremia 31, 31 - 34:

"Ecco, verranno giorni - oracolo del Signore -, nei quali con la casa d'Israele e con la casa di Giuda concluderò un'alleanza nuova. Non sarà come l'alleanza che ho concluso con i loro padri, quando li presi per mano per farli uscire dalla terra d'Egitto, alleanza che essi hanno infranto, benché io fossi loro Signore. Oracolo del Signore. Questa sarà l'alleanza che concluderò con la casa d'Israele dopo quei giorni - oracolo del Signore -: porrò la mia legge dentro di loro, la scriverò sul loro cuore. Allora io sarò il loro Dio ed essi saranno il mio popolo. Non dovranno più istruirsi l'un l'altro, dicendo: "Conoscete il Signore", perché tutti mi conosceranno, dal più piccolo al più grande - oracolo del Signore -, poiché io perdonerò la loro iniquità e non ricorderò più il loro peccato".

In Geremia il tema dell'Alleanza viene posto in intima connessione con quello della conoscenza, o meglio della comunione con Dio. Ecco dove volevo giungere: la stanza come luogo della conoscenza, della comunione, dell'intimità; il luogo dove Dio si mostra e dimostra il suo infinito ed estremo amore per noi.

E dove si trova questo luogo ospitale? Dentro di noi, quella stanza è il nostro cuore, semiticamente parlando è il luogo dove abita e si radica il nostro vero essere.

Giunge il tempo delle domande: vi è in noi il desiderio di conoscere ed entrare in comunione con il Signore? Abbiamo il desiderio di preparare, pulire, rendere bella e festosa questa stanza?

Buona domenica del Corpus Domini



sabato 22 maggio 2021

Compimento e sigillo

 

Domenica di Pentecoste, anno B – 23 maggio 2021 




Dal Vangelo di Giovanni (15,26-27; 16,12-15) 

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: 

«Quando verrà il Paràclito, che io vi manderò dal Padre, lo Spirito della verità che procede dal Padre, egli darà testimonianza di me; e anche voi date testimonianza, perché siete con me fin dal principio.

Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso. Quando verrà lui, lo Spirito della verità, vi guiderà a tutta la verità, perché non parlerà da sé stesso, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annuncerà le cose future. Egli mi glorificherà, perché prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà. Tutto quello che il Padre possiede è mio; per questo ho detto che prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà».






Commento a cura di Claudia Spurio


Immagini parziali

Ho ricordi molto pittoreschi dello Spirito Santo che risalgono al catechismo della cresima: una colomba, una fiammella, un dito che indica la strada, una sorta di grillo parlante o di suggeritore. Immagini troppo infantili per la sensibilità di adulta di oggi, ma soprattutto queste immagini dicono solo una parte dell’identità dello Spirito Santo. Cos’è lo Spirito Santo? Anzi Chi è? 

Ci parla del Padre e del Figlio

In questo testo evangelico la spiegazione sembra farsi ancora più intricata. L’evangelista parla di uno spirito di verità che ci guiderà a tutta la verità perché non parla da se stesso ma dice ciò che ha udito; lo Spirito Santo dice Gesù in questo passo del Vangelo: “prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà”.

Proprio in questa ultima frase è contenuto il segreto per comprendere chi è lo Spirito. È colui che ci parla del Padre e del Figlio. In particolare ci dona qualcosa che è parte del Cristo; lo Spirito ci annuncia qualcosa del Cristo. Ma cos’è “di Cristo”? Quale parte di Lui ci viene annunciata, donata? 

Ci dona quel che è di Cristo

Lo Spirito ci dona l’amore appassionato di Cristo. Lo Spirito Santo è Colui che ci dà quella forza intimamente appartenente a Cristo, quella passione totalmente e profondamente Sua con cui Egli ama prima di tutto il Padre e poi i fratelli. Infatti dice San Paolo che lo Spirito grida in noi: “Abba, Padre”. Questo grido non è una capacità, una virtù, una regola, un precetto. No! È di più! Lo Spirito prende da quel che è Suo (di Cristo) e ce lo dà. Con la Pentecoste possiamo dire: “possiedo in me l’amore di Cristo”.

Nessun’altro al mondo può fare questo. Un padre può insegnare al figlio a voler bene con l’esempio, il dialogo, l’educazione, ma non può trasfondergli la sua passione d’amore. Nello Spirito Santo invece riceviamo come linfa vitale la passione di Cristo per il mondo. 

Imparare ad invocare lo Spirito

Questo dono non ci investe in modo passivo; va desiderato, invocato e accolto. Purtroppo il nostro cristianesimo è molto radicato nell’osservanza di regole e non siamo educati ad invocare lo Spirito per essere ricolmati della Sua forza d’amore. Invocando lo Spirito entriamo in quella vita di profonda relazione e comunione che è la vita della Trinità e dunque diventiamo capaci di relazioni autentiche. 

Il Carisma dell’Unità è compimento e sigillo

Nella Pentecoste il dono della Pasqua viene portato a compimento. La vita nuova ricevuta con la croce e la resurrezione viene sigillata nel nostro cuore mediante lo Spirito. C’è un segno inequivocabile che dimostra la presenza di questo compimento in noi: la comunione. Se il cristiano vive una vita nello Spirito di Cristo ha la capacità di aprirsi, di accogliere tutti e di annunciare a tutti (i discepoli dopo la Pentecoste parlano tutte le lingue) senza chiudersi in recinti di protezione. Un cristiano lo riconosci perché sa stare ovunque e con tutti, esaltando l’originalità dei fratelli e creando unità. L’unità nella differenza è l’essenza della Trinità: il Padre e il Figlio sono Uno e questa unità è sigillata dallo Spirito. In ogni vero cristiano fiorisce il Carisma dell’Unità. O il cristiano è segno di comunione ad immagine della Trinità oppure semplicemente non è cristiano.


sabato 15 maggio 2021

Ascensione di Gesù: "Perché tutti siano una cosa sola"


Domenica 16 maggio 2021 – Ascensione del Signore


Dal Vangelo di Marco (16,15-20)

In quel tempo, [Gesù apparve agli Undici] e disse loro: «Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo a ogni creatura. Chi crederà e sarà battezzato sarà salvato, ma chi non crederà sarà condannato. Questi saranno i segni che accompagneranno quelli che credono: nel mio nome scacceranno demòni, parleranno lingue nuove, prenderanno in mano serpenti e, se berranno qualche veleno, non recherà loro danno; imporranno le mani ai malati e questi guariranno».

Il Signore Gesù, dopo aver parlato con loro, fu elevato in cielo e sedette alla destra di Dio.

Allora essi partirono e predicarono dappertutto, mentre il Signore agiva insieme con loro e confermava la Parola con i segni che la accompagnavano.



Commento a cura di Benedetta DUI da Jesi, redazione on line www.legraindeble.it


Ascensione: un addio?

Non è facile, Signore, contemplare un mistero così grande come la tua Ascensione al Cielo. Un mistero che ci ricorda che Tu non sei solo Uomo, ma sei anche Dio. Qualche giorno fa la liturgia del giorno ci proponeva un passo del Vangelo di Giovanni (Gv 14, 23-29) di cui riporto solo alcuni versetti: «Non sia turbato il vostro cuore e non abbia timore. Avete udito che vi ho detto: “Vado e tornerò da voi”. Se mi amaste, vi rallegrereste che io vado al Padre, perché il Padre è più grande di me».

Mi stupisce questo desiderio che Tu, Signore, consegnavi ai tuoi discepoli addirittura prima della tua Passione e che oggi consegni a noi, dopo che questi fatti sono avvenuti, cioè post Passione, Morte, Resurrezione, Ascensione e Pentecoste. Tu ancora oggi desideri che noi siamo felici, che ci rallegriamo che Tu sia insieme al Padre. E mi colpisce tanto che Tu, Gesù, parli di una gioia che è conseguenza di un amore vero per Te. E forse mi interpellano così tanto le tue parole perché mi fanno da specchio tutti i momenti della vita in cui, invece che gioire, mi viene da dirti: “Signore ma dove sei? Perché sei asceso al Cielo? Perché ci hai lasciati qui, soli? Non sarebbe stato più facile se fossi rimasto?”.

O una fonte di gioia?

E così mentre ero alla ricerca del perché, del senso profondo dell’Ascensione, e stavo china su quei versetti del Vangelo di Giovanni, lo Spirito Santo mi è venuto in aiuto dandomi la risposta, cioè Se Stesso. Dopo averci mostrato il volto del Padre ed essere stato in mezzo a noi, il Figlio di Dio, Gesù, doveva salire al Cielo perché noi potessimo ricevere in dono lo Spirito Santo e divenire così tempio di tutta la Santissima Trinità. Se ci immergiamo nel passo di Gv 16, 7, possiamo percepire tutta l’urgenza che il Signore aveva di mandarci il Suo Santo Spirito. Non vedeva l’ora perché sapeva che quel giorno sarebbe nata la Chiesa, che a partire da quel giorno nessuno sarebbe più stato orfano, che da quel giorno chiunque, se lo desidera, può essere come Lui e compiere opere anche più grandi delle sue, perché Gesù è ormai tornato nel seno del Padre (Gv 14, 12).

Chiara ci aiuta…

Questo stava a cuore a Gesù: salire al Padre per donarci il Suo Spirito affinché tutta l’umanità fosse raggiunta dalla Buona Notizia, e ciascuno potesse essere un altro Cristo qui, ora, in questo mondo. Ci tengo a ringraziare anche una cara sorella in Cielo che mi ha aiutato ad entrare più profondamente nel mistero dell’Ascensione: Chiara Lubich. Mi sono imbattuta in questo provvidenziale video (https://www.youtube.com/watch?v=SmFPqZfsTEY) che vi consiglio di ascoltare (almeno fino al minuto 11.15). Se siamo chiamati a vivere alla maniera di Cristo, vuol dire che ciascuno di noi è chiamato ad essere Cristo, tant’è che ci chiamiamo Cristiani! E per dirla con le parole di Chiara: «Gesù ha pregato per l’unità; e la grazia che ha ottenuto è l’Eucarestia che ci fa Uno, che ci fa un corpo solo e un’anima sola. La parte nostra, l’ascetica, è l’amore reciproco; la parte mistica, che viene da Dio, è l’Eucarestia, che fa il suo effetto sul nostro amore reciproco: ci fa Uno, [nel video a questo punto Chiara indica se stessa e le persone che ha attorno e dice:] Cristo, Cristo, Cristo, Cristo, tutti Cristo!».

È lo Spirito Santo che ci fa essere e ci fa vivere come Gesù, se lo desideriamo. Se tutti quanti chiedessimo tutti i giorni, assiduamente, lo Spirito Santo, la nostra vita, le nostre opere avrebbero il profumo del Cielo, il sapore del Paradiso. Allora, come San Paolo, ciascuno di noi potrebbe gridare: «Non vivo più io, ma Cristo vive in me» (Gal 2, 20).

Contemplare l'Ascensione

Oggi, Ascensione del Signore Gesù, non voglio avere la faccia triste, perché non si celebra il ricordo di un addio. Oggi voglio rallegrarmi perché Gesù è in Cielo con il Padre ma è anche qui, dentro di me, ed è dentro ciascuno di noi, per grazia dello Spirito Santo. Nostro compito è lasciar nascere e lasciar vivere Dio in noi e in mezzo a noi. Preparandoci alla Pentecoste, chiediamo a Maria di prestarci i suoi occhi per scoprire, riconoscere e contemplare la presenza di Cristo nel volto, nelle parole, nei gesti, nel cuore delle persone che ci sono accanto e che ci capita di incontrare. Allora non proveremo più alcuna tristezza perché sperimenteremo che Cristo non se n'è andato, ma è qui, insieme a noi, tutti i giorni fino alla fine del mondo. Questo è il motivo della nostra gioia ed è questa gioia piena che siamo chiamati a testimoniare.