sabato 26 dicembre 2020

Porsi al servizio

 I domenica dopo Natale

 Festa Santa Famiglia di Gesù, Maria e Giuseppe 

 – 27 dicembre 2020 - 




Dal Vangelo di Luca (2,22-40)

Quando furono compiuti i giorni della loro purificazione rituale, secondo la legge di Mosè, [Maria e Giuseppe] portarono il bambino [Gesù] a Gerusalemme per presentarlo al Signore – come è scritto nella legge del Signore: «Ogni maschio primogenito sarà sacro al Signore» – e per offrire in sacrificio una coppia di tortore o due giovani colombi, come prescrive la legge del Signore.

Ora a Gerusalemme c’era un uomo di nome Simeone, uomo giusto e pio, che aspettava la consolazione d’Israele, e lo Spirito Santo era su di lui. Lo Spirito Santo gli aveva preannunciato che non avrebbe visto la morte senza prima aver veduto il Cristo del Signore. Mosso dallo Spirito, si recò al tempio e, mentre i genitori vi portavano il bambino Gesù per fare ciò che la Legge prescriveva a suo riguardo, anch’egli lo accolse tra le braccia e benedisse Dio, dicendo:

«Ora puoi lasciare, o Signore, che il tuo servo vada in pace, secondo la tua parola,

perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza, preparata da te davanti a tutti i popoli:

luce per rivelarti alle genti e gloria del tuo popolo, Israele».

Il padre e la madre di Gesù si stupivano delle cose che si dicevano di lui. Simeone li benedisse e a Maria, sua madre, disse: «Ecco, egli è qui per la caduta e la risurrezione di molti in Israele e come segno di contraddizione – e anche a te una spada trafiggerà l’anima –, affinché siano svelati i pensieri di molti cuori».

C’era anche una profetessa, Anna, figlia di Fanuèle, della tribù di Aser. Era molto avanzata in età, aveva vissuto con il marito sette anni dopo il suo matrimonio, era poi rimasta vedova e ora aveva ottantaquattro anni. Non si allontanava mai dal tempio, servendo Dio notte e giorno con digiuni e preghiere. Sopraggiunta in quel momento, si mise anche lei a lodare Dio e parlava del bambino a quanti aspettavano la redenzione di Gerusalemme.

Quando ebbero adempiuto ogni cosa secondo la legge del Signore, fecero ritorno in Galilea, alla loro città di Nàzaret. Il bambino cresceva e si fortificava, pieno di sapienza, e la grazia di Dio era su di lui.



COMMENTO (a cura Elisabetta Corsi da Fermo, redazione www.legraindeble.it)

Per fede.“Per fede” agiscono i personaggi che si muovono nelle storie divine e umane che leggiamo nella liturgia della Parola di questa domenica. Ma cosa vuol dire, nel profondo, agire per fede? Cos’è la fede? Ripercorrendo insieme la prima lettura e il vangelo, riflettendo la Parola nelle profondità della nostra coscienza, cercheremo di dare insieme una risposta degna di “fede” alla domanda che ci siamo posti.

Certezza di futuro. In Ebr. 11, 8 leggiamo: Πίστει καλούμενος Ἀβραὰμ ὑπήκουσεν ἐξελθεῖν εἰς τόπον ὃν ἤμελλεν λαμβάνειν εἰς κληρονομίαν (Pìstei kaloùmenos Abraàm ypékousen exeltheìn eis tòpon òn émellen lambànein eis kleronomìan); letteralmente traducibile in: “Per fede Abramo, chiamato, ascoltò il partire verso un luogo che stava per prendere in eredità”. Se guardiamo al procedimento di ciò che accade “per fede” scopriamo che il contenuto di quanto viene predetto è tutto confinato in un futuro le cui vicende non trovano consistenza nel presente dell’Abramo in ascolto. Ciò che accade realmente e che predice il futuro, è sostanziato in Paolo da due verbi: il participio καλούμενος (kaloùmenos), “chiamato”, e il verbo  ὑπήκουσεν (upékousen), “ascoltò”.

Al servizio. Il primo verbo è ciò che permette il profilarsi di Dio all’interno della vita di Abramo: il patriarca, sentendosi “chiamato”, sente che la sua esistenza fa parte di Colui che lo chiama. Animato dal desiderio di vita, lui che è νενεκρωμένου (nenekroménou), “già morto”, decide di aderire alla Vita e di accogliere il progetto di Dio per lui. In che modo? Egli ὑπήκουσεν (upékousen), “ascoltò”. Il verbo ὑπακούω ha un significato particolare: parte dalla radice del verbo “ascoltare”, preceduta dal prefisso yp- che significa letteralmente “sotto”. Potremmo allora tradurre il verbo con l’espressione “ascoltare ponendosi al servizio”.

La fede di Simeone. Come si può avere la forza di porsi al servizio di un progetto di cui non si ha certezza di accadimento? La forza di Abramo, come quella di Simeone, risiede tutta nella chiamata: quando Dio chiama, si percepisce nel cuore che non c’è Verità più vera, Luce più luminosa, futuro più presente di quanto pronunciato da Dio. Perché, per fede, credi nella Verità e ogni distanza da questa viene colmata dalla certezza dell’approdo. Nell’abbraccio al piccolo Gesù, come nella soluzione di un enigma, nella disvelazione di un segreto eterno, Simeone rivede la luce, riacquista la vista, appaga dell’Amore del Figlio, il suo cuore desideroso dell’Amore di Dio: e in esso riconosce lo Spirito.


domenica 20 dicembre 2020

"Maria, insegnaci tu"

 

IV Domenica di Avvento – anno B – 20 dicembre 2020





Dal Vangelo di Luca (1,26-38)

In quel tempo, l’angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nàzaret, a una vergine, promessa sposa di un uomo della casa di Davide, di nome Giuseppe. La vergine si chiamava Maria. Entrando da lei, disse: «Rallègrati, piena di grazia: il Signore è con te».

A queste parole ella fu molto turbata e si domandava che senso avesse un saluto come questo. L’angelo le disse: «Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio. Ed ecco, concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù. Sarà grande e verrà chiamato Figlio dell’Altissimo; il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine».

Allora Maria disse all’angelo: «Come avverrà questo, poiché non conosco uomo?». Le rispose l’angelo: «Lo Spirito Santo scenderà su di te e la potenza dell’Altissimo ti coprirà con la sua ombra. Perciò colui che nascerà sarà santo e sarà chiamato Figlio di Dio. Ed ecco, Elisabetta, tua parente, nella sua vecchiaia ha concepito anch’essa un figlio e questo è il sesto mese per lei, che era detta sterile: nulla è impossibile a Dio».

Allora Maria disse: «Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola». E l’angelo si allontanò da lei.


Commento a cura di Benedetta Dui da Jesi, redazione on line www.legraindeble.it

Contemplare per assomigliare a Maria e a Gesù. Siamo arrivati alla quarta domenica d’Avvento e la liturgia ci presenta il vangelo dell'Annunciazione della nascita di Gesù a Maria Santissima. Questo brano evangelico si presta benissimo più che alla spiegazione, alla contemplazione. Non a caso il Santo Rosario ci invita a contemplarlo nel primo mistero della Gioia. E per restare in tema, proprio domenica scorsa, domenica della Gioia, ci eravamo lasciati con Giovanni Battista che ancor prima di essere testimone della Luce di Dio, ne era stato contemplatore. 

Contemplare non significa capire e saper spiegare tutto per filo e per segno, ma significa sostare a lungo (il tempo di cinquanta Ave Marie) e lasciarsi prendere per mano dalla Vergine che ci presta i suoi occhi di Madre e Figlia e ci accompagna nei momenti più importanti della vita di Cristo. Così piano piano, ci accorgiamo di quanto siano vere le parole di Gustave Flaubert: “si diventa ciò che si contempla”. Infatti, più contempliamo i misteri della fede con gli occhi di Maria – oggi in particolare il mistero dell’Umiltà di Dio che si fa Bambino per noi – più diventiamo umili, disponibili al sì, e per grazia di Dio, capaci di parlare, tacere, agire, pensare, pregare, vivere e morire proprio come Maria e come Gesù. La contemplazione ci aiuta sia a cambiare in meglio, sia a costruire fraternità.

La fiducia dei figli. L’angelo Gabriele entra nella casa di Maria, in un luogo intimo e quotidiano, e le rivolge un saluto stupendo: “Rallègrati, piena di grazia, il Signore è con te”. Maria è l’Umanità perfetta, tutta Bellezza e Umiltà, senza sbavature di sorta, senza macchia. Eppure anche lei, ascoltate le parole dell’angelo, ha una reazione che somiglia molto alle comuni reazioni che noi, umanità ferita dal peccato, abbiamo dinanzi ai fatti che ci accadono nella vita, compresi quelli belli: ci prende la paura. “A queste parole ella fu molto turbata”, al punto che l’angelo la rassicura subito: “Non temere, Maria”.

Per noi che abbiamo centinaia di paure, è consolante sapere che anche Maria ha provato timore. Vuol dire che avere paura non è una colpa e possiamo permetterci di aver paura dinanzi alle grandiose ed incredibili proposte che Dio ci fa. Quando abbiamo paura, anzitutto riconosciamolo, e poi facciamo risuonare nel nostro cuore le parole di conforto dell’angelo, che in fondo sono le parole che Dio stesso ci rivolge: "Non temere, …" (ognuno completi con il proprio nome). Lasciamoci rassicurare dal Padre e lasciamo crescere in noi la fiducia totale di cui è capace solo chi si sente figlio. Solo allora avremo tolto alle nostre paure lo scettro, il potere di dominarci. Allora, come Maria, anche noi saremo grembo che accoglie e custodisce la volontà di Dio: “Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola”.

Per riflettere. In questi ultimi giorni di attesa (ma anche in futuro), tutte le volte in cui saremo presi dal timore, ripetiamoci con convinzione e perseveranza: “Non temere…”. E magari prendiamoci anche un po’ di tempo per contemplare i misteri della Gioia, che sono veramente perfetti per prepararci al Natale del Signore Gesù!


venerdì 11 dicembre 2020

Davanti al tuo volto

III Domenica d’Avvento, anno B – 13 dicembre 2020


Dal Vangelo di Giovanni (1,6-8.19-28)

Venne un uomo mandato da Dio: il suo nome era Giovanni. Egli venne come testimone per dare testimonianza alla luce, perché tutti credessero per mezzo di lui. Non era lui la luce, ma doveva dare testimonianza alla luce.

Questa è la testimonianza di Giovanni, quando i Giudei gli inviarono da Gerusalemme sacerdoti e levìti a interrogarlo: «Tu, chi sei?». Egli confessò e non negò. Confessò: «Io non sono il Cristo». Allora gli chiesero: «Chi sei, dunque? Sei tu Elia?». «Non lo sono», disse. «Sei tu il profeta?». «No», rispose. Gli dissero allora: «Chi sei? Perché possiamo dare una risposta a coloro che ci hanno mandato. Che cosa dici di te stesso?». Rispose: «Io sono voce di uno che grida nel deserto: Rendete diritta la via del Signore, come disse il profeta Isaìa».

Quelli che erano stati inviati venivano dai farisei. Essi lo interrogarono e gli dissero: «Perché dunque tu battezzi, se non sei il Cristo, né Elia, né il profeta?». Giovanni rispose loro: «Io battezzo nell’acqua. In mezzo a voi sta uno che voi non conoscete, colui che viene dopo di me: a lui io non sono degno di slegare il laccio del sandalo».

Questo avvenne in Betània, al di là del Giordano, dove Giovanni stava battezzando.



Commento a cura di Elisabetta Corsi da Fermo, redazione on line www.legraindeble.it


La testimonianza del Battista - Prologo del vangelo di Marco

Nella scorsa domenica di Avvento, la liturgia ci presentava il prologo del vangelo di Marco (qui il link). In una sorta di preambolo alla testimonianza del Battista giunge una voce, assente nel passo di Isaia citato dall’evangelista, che dice: “Vedi, io mando il mio messaggero davanti al tuo volto, il quale preparerà la tua strada”. Due sono gli interlocutori del passo: il primo è quella voce (bene)dicente che invia il suo messaggero; il secondo è una figura silente, pronta all’azione, inizio e conseguenza dell’opera del messaggero. Ma, a ben guardare, un terzo interlocutore, pronunciato dal benedicente, si profila quale terza persona del dialogo, incarnata proprio dalla figura del messaggero inviato. Il tempo eterno del Cielo suggella il vangelo di Marco che riporta tacitamente l’ineffabile dialogo d’amore delle Tre Persone della Trinità: il Padre mostra al Figlio la strada dell’opera di Redenzione e invia “il suo messaggero” sulla terra: lo Spirito diventa “voce di uno che grida nel deserto”.


Venne Giovanni

In questo preambolo dialogico si inserisce perfettamente la figura di Giovanni il Battista, delineata sia nel vangelo di Marco sia in quello di Giovanni (vangelo di questa domenica di Avvento). La formula utilizzata da Marco in Mc. 1, 4  è “Venne Giovanni”. In Giov. 1,6 si legge invece: Ἐγένετο ἄνθρωπος ἀπεσταλμένος παρὰ θεοῦ (Egéneto ànthropos apestalménos parà theoù). Letteralmente: “Venne un uomo mandato da Dio”. Il verbo ἀποστέλλω (apostello) indica un’azione di movimento attraverso cui una forza o un’entità si sposta dal suo luogo di origine per approdare verso un luogo altro in cui quella stessa forza o entità è assente. Il “mittente” sia in Marco sia in Giovanni evangelista è esplicitato ed è Dio. Ma chi è il “ricevente”?


A preparare la strada

Per poter rispondere alla domanda è necessario considerare alcuni aspetti: in Marco il messaggero viene mandato “a preparare la strada”. L’azione espressa dal verbo non incontra un ‘ricevente’ esplicito, ma si manifesta nel fine dell’azione, quello di ‘precedere nella testimonianza’; in Giovanni il verbo in questione viene, invece, coniugato al participio ἀπεσταλμένος (apestalménos), “mandato”, divenendo attributo unico dell’uomo-messaggero. Ecco allora che nell’espressione utilizzata da Giovanni evangelista troviamo condensato un concetto che in Marco viene espresso nello spazio di tre versetti: lo Spirito, “messaggero di Dio” e Terza persona della Trinità, giunge sulla terra, inviato da Dio, e diviene “voce” di Giovanni il Battista; analogamente, in Giovanni, il Battista è l’“uomo mandato da Dio” in quanto ‘ricevente’ lo Spirito da Lui effuso.


Testimone della luce

Ed è proprio nel fine dell’azione che si concentra tutta la forza dello Spirito Santo in Giovanni Battista: in un movimento che dal Cielo si effonde sull’uomo terreno e che eleva l’uomo-Giovanni fino al cielo, riportandolo alla sua unica dimora, si apre la felice opera di ‘preparazione della strada’ per mezzo della “testimonianza”. Scrive infatti Giovanni: “Egli venne per testimonianza, affinché rendesse testimonianza riguardo alla luce”. Il Battista è martire, testimone della luce di Dio. Ma come potrebbe testimoniare la luce senza aver visto la luce? È in questa verità che si svela a pieno quanto espresso da Marco nel suo preambolo: “Vedi, io mando il mio messaggero davanti al tuo volto”. Senza la contemplazione di Dio per mezzo del volto di Cristo, non possiamo essere testimoni di quella luce che solo dal movimento d’amore trinitario può essere promanata. Giovanni Battista, prima di essere precursore, è stato contemplatore della luce di Dio.


venerdì 4 dicembre 2020

Che cosa stai preparando?

 II Domenica di Avvento/B – 6 dicembre 2020 


Dal Vangelo di Marco (1,1-8) 

Inizio del vangelo di Gesù, Cristo, Figlio di Dio. Come sta scritto nel profeta Isaìa:

«Ecco, dinanzi a te io mando il mio messaggero:  egli preparerà la tua via. Voce di uno che grida nel deserto: Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri»,

vi fu Giovanni, che battezzava nel deserto e proclamava un battesimo di conversione per il perdono dei peccati. Accorrevano a lui tutta la regione della Giudea e tutti gli abitanti di Gerusalemme. E si facevano battezzare da lui nel fiume Giordano, confessando i loro peccati.

Giovanni era vestito di peli di cammello, con una cintura di pelle attorno ai fianchi, e mangiava cavallette e miele selvatico. E proclamava: «Viene dopo di me colui che è più forte di me: io non sono degno di chinarmi per slegare i lacci dei suoi sandali. Io vi ho battezzato con acqua, ma egli vi battezzerà in Spirito Santo».




COMMENTO a cura di Paride Petrocchi da Offida, referente redazione on line www.legraindeble.it

Alzi la mano chi non è mai entrato in cucina pronunciando la classica domanda: “Cosa stai preparando?”, vedendo la mamma o la nonna alle prese con i fornelli, piatti e pietanze.

La stessa domanda oggi la pongo a me e la giro a voi: che cosa stiamo preparando? Preparando: voce del verbo...

L’Avvento è il tempo che precede il Natale e tutti siamo in fermento affinché tutto sia “pronto”. È un tempo di preparativi. Chi si prepara a comprare i regali, chi si organizza per preparare cene e pranzi sontuosi, chi si occupa di addobbare le case in modo scintillante e caloroso. Dal nonno al nipote, dalla zia alla nuora è tutto un “prepararsi”.

Anche il Vangelo riprende questo verbo, se domenica scorsa ci ammoniva di “vegliare”, in questa domenica vi è una ricorrenza non casuale del verbo “preparare”.

Lo si ascolta nella I lettura con Isaia, anche la II lettura di Paolo ci richiama ad essere pronti, in pace, senza colpa e senza macchia ma è soprattutto l’incipit del Vangelo marciano che ci dona una duplice chiave di lettura inserita in una duplice citazione:

 «Ecco, dinanzi a te io mando il mio messaggero: egli preparerà la tua via. Voce di uno che grida nel deserto: Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri».

La prima citazione deriva dal libro dell’Esodo 23, 20 – 23 e la seconda invece dal libro di Isaia 40, 1 – 5. 9 – 11 (il testo combacia con la I lettura).

Sul versante delle chiavi di lettura, abbiamo in un primo momento che è Dio stesso che manda un messaggero, o meglio un angelo, a preparare la via per il popolo di Israele nel deserto; in un secondo momento invece è nostra la responsabilità di “costruire” una strada del Signore.

Una stessa via o più vie? Qui non è precisato ma ben sappiamo che non possiamo “andare a Dio” senza che “Dio si sia fatto prossimo, vicino”.

     Per riflettere

Ci restano in mano almeno due domande: Qual è questa “via” che il Signore ci domanda di preparare, di costruire? In che “modo” va costruita questa via?

Mentre la prima domanda rimane strettamente personale, per la seconda il passo dell’Esodo ci dona una pista: ascoltare e seguire un messaggero, tale suggerimento apre un’ulteriore domanda:

Qual è o per essere più inclusivi questi messaggeri che preparano la via verso il Signore?

A tutti le stesse domande, ad ognuno la sua risposta.

Buon cammino gioioso d’Avvento.


sabato 28 novembre 2020

S-veglia! Il Signore è vicino

 I Domenica di Avvento/B – 29 novembre 2020


Dal Vangelo secondo Marco (13,33-37)

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Fate attenzione, vegliate, perché non sapete quando è il momento. È come un uomo, che è partito dopo aver lasciato la propria casa e dato il potere ai suoi servi, a ciascuno il suo compito, e ha ordinato al portiere di vegliare.

Vegliate dunque: voi non sapete quando il padrone di casa ritornerà, se alla sera o a mezzanotte o al canto del gallo o al mattino; fate in modo che, giungendo all'improvviso, non vi trovi addormentati.

Quello che dico a voi, lo dico a tutti: vegliate!».



Commento a cura di Emanuela Mori  da Offida (Redazione on line www.legraindeble.it)

Diversi anni fa, mia madre, impegnata in altri servizi, mi lasciò alle poste di una città di provincia per pagare la tassa sull'immondizia che scadeva quel giorno. Era giorno di pensioni e di pagamenti, e le poste erano molto affollate, ma noi dovevamo assolutamente pagarla, non si poteva rimandare.

Entrai nel primo pomeriggio. Dato che l'attesa era lunga, mi misi a sedere vicino ad un'anziana che aspettava il suo turno. Aveva dei biglietti appoggiati su un tavolino davanti a lei. Ogni tanto qualcuno, innervosito, usciva e lasciava un biglietto. L'anziana mi porse un biglietto dal numero più basso di quello che avevo io, mi sorrise e facemmo amicizia. A chi era appena entrato e, sconsolato, riconosceva di avere un numero molto alto, davamo un biglietto con un numero più basso, e il loro sconforto si alleviava.

Così passammo diversi minuti, finché fu il turno della signora, la quale con un sorriso mi salutò e mi lasciò il banchetto con i numeri, che smistavo tra i nuovi avventori dell'ufficio postale. In orario di chiusura, stremata, riuscii a fare la mia commissione, dopo ben tre ore e mezza di attesa. Sarà una idea bislacca, ma da allora paragono il Purgatorio a quel giorno infinito alle Poste...

Sì, Avvento tempo di attesa, sì, restare svegli, ma non senza fare niente aspettando che il tempo passi o maledire il fatto di dover aspettare così tanto alle Poste. Come uso il mio tempo? Per lamentarmi o per fare qualcosa di buono e di bello?

Riempire la vita di gesti di amore verso il prossimo (il traffico di biglietti), di gesti d'amore verso Dio restando lì dove siamo, su quella sedia quel pomeriggio, senza andarcene buttando il nostro biglietto e con esso l'occasione di un incontro. “Restare” nella preghiera anche quando si fa dura. Riconoscere nella nostra vita quegli “angeli” che il Signore manda per insegnarci “come si fanno” i gesti di amore. Angeli che quando se ne vanno sembrano dire: “ora va'... e fa' anche tu altrettanto!”. 

Allora la nostra quotidianità non sarà addormentata e noiosa, ma tutto nella vita ci dirà: “S-veglia! Il Signore è vicino!”.


venerdì 20 novembre 2020

Tutto nel frammento

 XXXIV Domenica del Tempo Ordinario - Solennità di Cristo Re dell'Universo 

                                            22 novembre 2020



Dal Vangelo di Matteo (25,31-46)

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: 

«Quando il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria, e tutti gli angeli con lui, siederà sul trono della sua gloria. Davanti a lui verranno radunati tutti i popoli. Egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dalle capre, e porrà le pecore alla sua destra e le capre alla sinistra. 

Allora il re dirà a quelli che saranno alla sua destra: “Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo, perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi”. 

Allora i giusti gli risponderanno: “Signore, quando ti abbiamo visto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, o assetato e ti abbiamo dato da bere? Quando mai ti abbiamo visto straniero e ti abbiamo accolto, o nudo e ti abbiamo vestito? Quando mai ti abbiamo visto malato o in carcere e siamo venuti a visitarti?”. E il re risponderà loro: “In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me”. 

Poi dirà anche a quelli che saranno alla sinistra: “Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli, perché ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e non mi avete dato da bere, ero straniero e non mi avete accolto, nudo e non mi avete vestito, malato e in carcere e non mi avete visitato”. 

Anch’essi allora risponderanno: “Signore, quando ti abbiamo visto affamato o assetato o straniero o nudo o malato o in carcere, e non ti abbiamo servito?”. Allora egli risponderà loro: “In verità io vi dico: tutto quello che non avete fatto a uno solo di questi più piccoli, non l’avete fatto a me”. 

E se ne andranno: questi al supplizio eterno, i giusti invece alla vita eterna».



Commento a cura di Carolina Perfetti da Macerata (redazione on line www.legraindeble.it)


Il Vangelo di questa Domenica conclude il tempo ordinario e ci prepara all’avvento, tempo di attesa, conversione, di trepidante desiderio di andare incontro a Gesù. Μeditare questo Vangelo come ultimo messaggio in preparazione all’avvento è l'ultimo dono prezioso che il Signore prepara per quest'anno liturgico. 

Ecco quindi che Matteo, ci presenta una bellissima visione giudiziale, dove al centro vi è il Figlio dell’uomo descritto come giudice che siede sul seggio del giudizio di fronte a cui si presentano tutte le genti. Così come accade spesso nel Vangelo, il giudizio finale è espresso attraverso una separazione: quella del grano dalla zizzania, dei pesci buoni da quelli cattivi. Dunque, ci viene presentata una visione in cui il Cristo appare come re, giudice di tutta l’umanità. Ricordiamoci, però, che il giudizio universale sarà anche un giudizio personale, un giudizio che si intrattiene con l'anima di ciascuno di noi. Ognuno verrà giudicato non per quanto avrà fatto, ma per quanto avrà amato. 

Mi colpisce che di nuovo l’attenzione del Vangelo sia posta sui piccoli, sugli ammalati, sui poveri, sui carcerati, su tutti coloro che siedono ai confini della città. 

Se pensiamo alla situazione che stiamo vivendo oggi, rifletto su quali sono i poveri per me, e mi chiedo: "A chi mi sta chiedendo di dare da mangiare il Signore oggi? Chi mi chiede di amare?". Un'altra domanda che per molto tempo si annidava nella preghiera, era questa:  "Qual è  l’urlo del regno Dio?"

Mi tormentavo alla ricerca di questa risposta, perché volevo mettermi davvero in gioco con il Signore, poi un’estate mi venne proposta un’esperienza in un centro diurno per minori. Piena di entusiasmo, preparai lo zaino e partii. Il giorno dopo conobbi i ragazzi del centro. Il primo pensiero, influenzata anche dalla mia formazione, fu quello di osservare tutto ciò che questi ragazzi facevano, per poter comprendere i loro bisogni. Ma più andavo avanti, più non riuscivo a capire in che modo li avrei amati di più. Finché un giorno, pregando, compresi che dovevo accantonare la mia parte da educatrice e semplicemente stare con loro. Che rivelazione. Fu davvero stupendo: ridere, giocare, scherzare con questi ragazzi. Parlare di Gesù venne così naturale che pensai che stessi davvero cambiando la storia. Quando arrivò il momento di salutarli, solo in quel momento, compresi davvero ciò che il Signore mi stava dicendo. Non ero stata io a  cambiare il mondo, ma erano stati loro a cambiare il mio. L’urlo del Regno è quello di essere amato, ed è proprio ciò che il Vangelo ci vuole dire. Ciò che avrete fatto al più piccolo di loro, lo avrete fatto a me. Amando quei ragazzi, avevo amato un po’ di più il Signore. 

Il Regno di Dio, la sua totalità, la ritroviamo  nel piccolo frammento della nostra vita quotidiana.


giovedì 12 novembre 2020

Che me ne faccio di un talento?

XXXIII Domenica del TO/A - 15 novembre 2020 




Dal Vangelo di Matteo (25,14-30)

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli questa parabola: 

«Avverrà come a un uomo che, partendo per un viaggio, chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni. A uno diede cinque talenti, a un altro due, a un altro uno, secondo le capacità di ciascuno; poi partì. 

Subito colui che aveva ricevuto cinque talenti andò a impiegarli, e ne guadagnò altri cinque. Così anche quello che ne aveva ricevuti due, ne guadagnò altri due. Colui invece che aveva ricevuto un solo talento, andò a fare una buca nel terreno e vi nascose il denaro del suo padrone. 

Dopo molto tempo il padrone di quei servi tornò e volle regolare i conti con loro. 

Si presentò colui che aveva ricevuto cinque talenti e ne portò altri cinque, dicendo: “Signore, mi hai consegnato cinque talenti; ecco, ne ho guadagnati altri cinque”. “Bene, servo buono e fedele – gli disse il suo padrone –, sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone”. 

Si presentò poi colui che aveva ricevuto due talenti e disse: “Signore, mi hai consegnato due talenti; ecco, ne ho guadagnati altri due”. “Bene, servo buono e fedele – gli disse il suo padrone –, sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone”. 

Si presentò infine anche colui che aveva ricevuto un solo talento e disse: “Signore, so che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso. Ho avuto paura e sono andato a nascondere il tuo talento sotto terra: ecco ciò che è tuo”. 

Il padrone gli rispose: “Servo malvagio e pigro, tu sapevi che mieto dove non ho seminato e raccolgo dove non ho sparso; avresti dovuto affidare il mio denaro ai banchieri e così, ritornando, avrei ritirato il mio con l’interesse. Toglietegli dunque il talento, e datelo a chi ha i dieci talenti. Perché a chiunque ha, verrà dato e sarà nell’abbondanza; ma a chi non ha, verrà tolto anche quello che ha. E il servo inutile gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti”».


COMMENTO a cura di Benedetta Dui da Iesi (redazione on line www.legraindeble.it)

Un talento che lascia liberi

Dio Padre affida alle nostre mani che sappiamo quanto possano essere incapaci e sporcarsi, i suoi preziosi beni – i talenti appunto - e poi che fa? Rimane lì a controllarci e opprimerci col fiato sul collo? Assolutamente no. Dio si allontana. A prima vista non sembra così logica questa partenza perché Dio non ci ha mica affidato degli scarti o delle cose di poco valore, ma almeno un talento lo ha dato a tutti! E ai tempi di Gesù il talento era un’unità di misura corrispondente a più di 34 kg di argento: qualcosa di prezioso, abbastanza pesante, e sicuramente responsabilizzante. Dunque questa strana partenza ci rivela che Dio si fida esageratamente di noi pur conoscendo i nostri limiti e ci ama al punto da volerci rendere totalmente protagonisti della nostra storia. Liberiamoci della falsa immagine di un Dio-Dittatore che ci obbliga a fare questo e non fare quello, e sigilliamo nel cuore l’esperienza di Dio-Amore che ci chi-ama, ci affida qualcosa di prezioso, un talento, ma poi ci lascia i nostri spazi, rispetta la nostra libertà e unicità.

Un talento che rende unici

E proprio per onorare la nostra unicità, Dio non può fare a tutti gli stessi identici doni. Ecco perché a uno dà cinque talenti, a un altro tre, e a un altro ancora uno. Non è affatto un’ingiustizia! Anzi questa parabola ci fa capire che il punto non è fare i capricci e dire al Signore: “Che ci faccio con un talento solo? Se me ne avessi dati di più, allora sì che avrei fatto tante cose!”. Questa è una lamentela sterile che nasconde pigrizia, malvagità, invidia, oltre che una buona dose di paura. Il punto invece è comprendere che avere tanti talenti vuol dire avere altrettante responsabilità perché “a chiunque fu dato molto, molto sarà chiesto; a chi fu affidato molto, sarà chiesto molto di più” (Lc 12, 48). Il punto è non sprecare i talenti ricevuti, ma partire da quello che c’è nel nostro oggi, non importa se è tanto o poco: infatti se mettiamo a frutto i doni del Signore, li vedremo moltiplicarsi, raddoppiarsi come accade ai servi buoni e fedeli nella parabola. Il punto è metterci in gioco nella vita perché Dio si fida di noi e perché qui sta la chiave per essere santi e pienamente gioiosi.

Per riflettere

Quali sono e dove sono i nostri talenti? Abbiamo anche noi un talento sotterrato in una buca? Che cosa aspettiamo a metterlo a frutto? Stiamo rendendo utile la nostra vita per qualcuno oppure ci nascondiamo per pigrizia, egoismo e paura?


sabato 7 novembre 2020

Olio per far luce...In attesa dello sposo eterno

 XXXII Domenica del TO/A – 8 novembre 2020


Dal Vangelo di Matteo (25,1-13)         

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli questa parabola: 

«Il regno dei cieli sarà simile a dieci vergini che presero le loro lampade e uscirono incontro allo sposo. Cinque di esse erano stolte e cinque sagge; le stolte presero le loro lampade, ma non presero con sé l’olio; le sagge invece, insieme alle loro lampade, presero anche l’olio in piccoli vasi. Poiché lo sposo tardava, si assopirono tutte e si addormentarono. 

A mezzanotte si alzò un grido: “Ecco lo sposo! Andategli incontro!”. Allora tutte quelle vergini si destarono e prepararono le loro lampade. Le stolte dissero alle sagge: “Dateci un po’ del vostro olio, perché le nostre lampade si spengono”. Le sagge risposero: “No, perché non venga a mancare a noi e a voi; andate piuttosto dai venditori e compratevene”. 

Ora, mentre quelle andavano a comprare l’olio, arrivò lo sposo e le vergini che erano pronte entrarono con lui alle nozze, e la porta fu chiusa. Più tardi arrivarono anche le altre vergini e incominciarono a dire: “Signore, signore, aprici!”. Ma egli rispose: “In verità io vi dico: non vi conosco”. Vegliate dunque, perché non sapete né il giorno né l’ora».




COMMENTO di Elisabetta Corsi  da Fermo (Redazione on line www.legraindeble.it)

Assisa nell'eternità. La traduzione letterale del primo versetto del vangelo di questa domenica recita: “Allora il regno dei cieli sarà reso simile a dieci vergini”. In quell’ὁμοιωθήσεται (omoiothésetai), “sarà reso simile”, si dispiega la potenza rivelatrice del Verbo: l’Uomo-Dio, che sta parlando e che per mezzo dello Spirito ricongiunge all’Eterno l’anima umana, in un futuro che diventa presente, per amore “previene quanti lo desiderano”; è la Sapienza precorritrice del tempo, perché assisa nell’eternità.

L’esilio e l’attesaNel moto parabolico di proiezione verso le sponde della salvezza, l’anima umana assiste al resoconto dei suoi chiaroscuri interiori, alla lotta di luce e di tenebre che prepara la sua più profonda essenza all’ὑπάντησιν τοῦ νυμφίου (ypàntesin toù nynfìou), “all’incontro con lo sposo”. Le dieci vergini, esemplificazione dell’integra regalità celeste, sostanziano, dunque, il punto di principio e fine di uno spazio temporale d’esilio e di attesa: conoscono lo sposo, lo attendono, e per riconoscerlo portano con sé delle lampade. Quelle λαμπάδας ἑαυτῶν (lampàdas eautòn) sono loro corredo sostanziale, bagaglio che le vergini hanno preso con sé prima di ogni cosa, dono elargito da Dio in vista dell’“incontro con lo sposo”.

Nel tempio di DioProprio nella cavità di quelle lampade l’anima riconosce se stessa quale tempio di Dio: tempio futuro e presente della “sapienza radiosa e indefettibile” di Dio, ma che ha bisogno di olio per avere luce e per far luce. Le vergini sagge, infatti, “avendo portato con sé le loro lampade”, ἔλαβον ἔλαιον ἐν τοῖς ἀγγείοις, (élabon élaion en tois angeìois), “portarono olio nei piccoli vasi”. Se a livello letterale e meramente concreto riusciamo a comprendere che la lampada non serve a nulla se non perché, per mezzo dell’olio, si possa accendere la luce, cosa indica spiritualmente la necessità dell’olio per far luce?

Aspersi d’olioPer comprendere il significato anagogico della parabola pronunciata dal Verbo, può giungere in nostro soccorso la prima lettura, che dice: “la sapienza facilmente è contemplata da chi la ama”. Allora, affinché il tempio di Dio, la lampada della nostra anima, non cada in un tenebroso e inerte sonnecchiare, ma, nell’attesa, faccia luce sullo sposo e ci permetta di contemplare il suo radioso arrivo, è necessario che i bordi della lampada siano aspersi dell’olio dell’amore e con esso consacrati a Dio. Perché in “piccoli vasi”? È il sentimento dell’attesa e dell’esilio che sostanzia la piccolezza del vaso, perché è difficile per anime create per l’eternità travasare nello stretto pertugio del divenire e nella piccolezza delle situazioni temporali, quell’amore celeste che deve ungere le pareti della nostra terrena esistenza. Ma amare negli stretti vasi di questo nostro esilio è la necessaria eterna via per amare a pieno la vita: via che dobbiamo percorrere per raggiungere il nostro eterno sposo celeste.


giovedì 29 ottobre 2020

Nutrimento per il cuore

Solennità di Tutti i Santi - 1 novembre 2020 


Dal Vangelo di Matteo (5,1-12)

In quel tempo, vedendo le folle, Gesù salì sul monte: si pose a sedere e si avvicinarono a lui i suoi discepoli. Si mise a parlare e insegnava loro dicendo:

«Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli.

Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati.

Beati i miti, perché avranno in eredità la terra.

Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati.

Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia.

Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio.

Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio.

Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli.

Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia.

Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli».





COMMENTO a cura di Paride Petrocchi da Offida (redazione on line www.legraindeblé.it)


Il brano evangelico odierno – Solennità di Ognissanti – più che essere commentato, andrebbe contemplato in silenzio, meditato nel cuore, “ruminando” nel corso della giornata, “impastato” nella nostra vita affinché essa sia tutta lievitata nell’amore.

Mi soffermo solo sull’incipit della pericope evangelica: “In quel tempo, vedendo le folle, Gesù salì sul monte: si pose a sedere e si avvicinarono a lui i suoi discepoli. Si mise a parlare e insegnava loro dicendo: ”Beati..."

Come nell’Esodo Mosè era salito sul Monte ed era disceso con le tavole della Legge, ora Gesù, il Nuovo Mosè sale su un monte e da lì scendono parole che sono Parola per la vita beata. Perché compie questo gesto? Perché crede che vi sia l’esigenza di una “Nuova Legge”? Quell’antica non andava più bene?

Tutte domande legittime ma che non giungono alla profondità necessaria della questione, infatti prima di parlare, Gesù “vede” le folle, le osserva, scruta i loro cuori, percepisce la loro fame e sete, è in perfetta “compassione” con i loro cuori, come con i nostri.

Gesù sa che ogni cuore pulsa che quell’eterna ed indomita domanda che ha sulle labbra il giovane ricco: “Maestro buono, che cosa devo fare per avere in eredità la vita eterna?” (Mc 10, 17). Come il giovane ricco, i discepoli gli si avvicinano, come se fossero calamitati da Gesù.

Tutto si ferma e si pone in ascolto. Nell’episodio del “giovane ricco”, Gesù inizia rispondendo, indicando il Decalogo, ma si spinge oltre e lo fa tutt’ora con le Beatitudini. La domanda rimane aperta, la risposta è sospesa o meglio “intessuta” in questo brano evangelico, perché essere felici è essere beati, essere beati è essere santi.

Contempliamo in questa domenica questa lunga lista e gustiamocela avrà il gusto della “vita eterna”.

sabato 24 ottobre 2020

Al cuor non si comanda?

Commento al Vangelo della XXX Domenica del TO / A - 25 ottobre 2020


Dal Vangelo secondo Matteo (22,34-40)

In quel tempo, i farisei, avendo udito che Gesù aveva chiuso la bocca ai Sadducèi, si riunirono insieme e uno di loro, un dottore della Legge, lo interrogò per metterlo alla prova: «Maestro, nella Legge, qual è il grande comandamento?». Gli rispose: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente. Questo è il grande e primo comandamento. Il secondo poi è simile a quello: Amerai il tuo prossimo come te stesso. Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e i Profeti».



COMMENTO 

Ringraziamo, per il commento di questa settimana, Emanuela Mori da Offida, della redazione on line http://www.legraindeble.it/

A volte anche noi mettiamo alla prova Dio, presumendo di conoscere il giusto. Ma Dio non si scompone: il tranello che il fariseo voleva porgli, Gesù lo tramuta in occasione per dare un insegnamento a tutti noi, perché siamo "come pecore senza pastore" (Marco 6,34). 

Gesù risponde: "Il grande comandamento è quello dell'amore". È qui l'assurdo: si può "comandare" l'amore? Nella nostra presunzione diremmo di no: "l'amore o c'è o non c'è, o lo senti o non lo senti; se non lo sento, le nostre strade si dividono", ci dice la nostra cultura dominante, e le amicizie finiscono, i rapporti si sgretolano e anche i legami familiari vacillano. Ma Dio ha un progetto di bene per noi. Dio non la pensa così: per Lui l'amore non è "quello che sento". Sulla croce, Dio non pensava alle tenebre che "sentiva" nel cuore (altrimenti, sarebbe sceso); pensava al Bene che poteva farmi con la sua resurrezione. L'amore esige i fatti. Non i nostri sentimenti, ma avere in noi "gli stessi sentimenti di Cristo" (Fil 2,5 e ss.). 

Mettendo il nostro cuore nel suo cuore possiamo sentirci capiti profondamente e misteriosamente, e unire le nostre sofferenze al valore salvifico della Sua croce. Unendoci a Lui, alla sua croce, anche quella frattura che percepiamo tra il nostro cuore e le esigenze dell'amore sarà redenta, inabissata nella sua morte (cfr. Rom 6,3-4), illuminata dalla sua resurrezione. E il mio cuore troverà la pace che desidera, intraprendendo la via dell'amore verso Dio "con tutto il mio cuore, con tutta la mia anima e con tutta la mia mente", e verso il prossimo "come me stessa". Perché "chi cerca il Signore, non manca di nulla" (Salmo 34,11). 

Buon cammino! 

domenica 18 ottobre 2020

Appartenere per essere liberi

 XXIX DOMENICA DEL TO/A  - 18 ottobre 2020


Dal Vangelo di Matteo (22,15-22)

15 Allora i farisei, ritiratisi, tennero consiglio per vedere di coglierlo in fallo nei suoi discorsi. 16 Mandarono dunque a lui i propri discepoli, con gli erodiani, a dirgli: «Maestro, sappiamo che sei veritiero e insegni la via di Dio secondo verità e non hai soggezione di nessuno perché non guardi in faccia ad alcuno. 17 Dicci dunque il tuo parere: È lecito o no pagare il tributo a Cesare?». 18 Ma Gesù, conoscendo la loro malizia, rispose: «Ipocriti, perché mi tentate? 19 Mostratemi la moneta del tributo». Ed essi gli presentarono un denaro. 20 Egli domandò loro: «Di chi è questa immagine e l'iscrizione?». 21 Gli risposero: «Di Cesare». Allora disse loro: «Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio». 22 A queste parole rimasero sorpresi e, lasciatolo, se ne andarono.


Commento a cura di Marco Raponi da Montecosaro

Da qualche domenica notiamo come i capi dei sacerdoti e i farisei sono particolarmente accaniti contro Gesù, d’altro canto Gesù è quanto mai diretto e tagliente nell’annuncio del Regno e nell’invito alla conversione; il tempo stringe, siamo al cap. 22 di Matteo, e nel cap. 26 poi inizierà il racconto della sua Passione. La radice del peccato va messa ben in evidenza affinché i figli di Dio siano attenti e vigilanti prima della partenza terrena di Gesù. 

Gesù è il veritiero e in questo hanno fatto centro i farisei, ma Gesù sa guardare in faccia a tutti, anche ai peggiori peccatori, perché Gesù non è venuto a condannare ma ad accogliere. Cesare era considerato un grande peccatore dai giudei, ma i farisei che si ritenevano perfetti e si permettono maliziosamente di tentare di incastrare Gesù. Come li avrebbe dovuti giudicare Gesù? Ma Gesù, come dicevamo, guarda tutti con occhi di amore, anzi con più amore i grandi peccatori. Gesù ci guarda dunque in faccia, ma condanna fermamente il peccato, e ci mette in guardia: il peccato porta necessariamente alla insoddisfazione, alla tristezza, al ripiegamento e in conclusione, alla dannazione.

Ecco la domanda palesemente ipocrita e consapevolmente tentatrice: "dato che tu sei il veritiero, vogliamo sapere da te se è giusto essere oppressi o no da tutte queste tasse, ancor più, essere sotto il giogo dei romani". In verità la domanda dei mandatari dei farisei posta a Gesù non è affatto interessata a chiedere un suggerimento su come comportarsi con gli oppressori romani, non è una domanda posta con fede. I farisei erano ricchi e non si interessavano alla condizione del popolo, ricchi di superbia soprattutto, e  amavano farsi vedere ed ammirare dalla gente come coloro che ritenendosi superiori non hanno bisogno di ascoltare qualcuno che possa minare difronte agli altri la loro superiorità, né tantomeno si interessavano di ascoltare la Parola di Verità di Gesù perché estremamente pungente per i cuori mondani.

Gesù in un’altra circostanza aveva parlato di tasse e di tributi da pagare (Matteo 17,24-27); in quella circostanza si rivolge a Pietro in occasione della visita a Cafarnao. I giudei che erano ritornati dall'esilio in Babilonia si impegnarono solennemente nell'assemblea a pagare  la tassa, in quel caso che era per fare in modo che il Tempio continuasse a funzionare e per curare la manutenzione sia del servizio sacerdotale che dell'edificio del Tempio (Neemia 10,33-40). Gesù in quella occasione dice: "da chi vanno riscossi i tributi per il Tempio? Dagli stranieri o dai propri figli?" Pietro risponde: "dagli stranieri". Gesù da una risposta simile anche agli emissari dei farisei: rendete dunque a Cesare quel che è di Cesare. La lettera ai romani cap. 13,7 dice: Rendete a ciascuno ciò che gli è dovuto: a chi si devono le tasse date le tasse, a chi l’imposta date l’imposta, a chi il timore il timore a chi il rispetto il rispetto. Gesù va al cuore dell’insegnamento, come sempre non si difende con violenza o attaccando sterilmente chi cerca di toglierlo di mezzo; Gesù ha una Paola di amore, di insegnamento, di accoglienza, di correzione con tutti. Gesù oggi ci dice: "dammi il tuo cuore, del resto usane per quel che è stato predisposto; non ti curare troppo nel trovare un bene o un male assoluto sulle cose del mondo, cura di avere il tuo cuore nel mio. Di chi è il cuore dell’uomo se non di Dio (date a Dio quel che è di Dio.) 

E’ bello vedere lo stupore negli emissari dei farisei, bene o male essi hanno avuto la grazia di ascoltare le parole di Gesù, hanno avuto modo di ascoltare una Parola liberante e benedicente, i farisei invece chiusi nel loro orgoglio restano con il cuore indurito. Se ci pensiamo anche noi dovremmo stupirci di questo Vangelo, a volte ci lamentiamo per le tasse per i servizi scarsi offerti dallo Stato ecc… , ma ci pensiamo mai che quei pochi o tanti soldi con cui paghiamo le tasse sono pur sempre un dono di Dio? Non è forse un dono il poter lavorare? Non è forse un dono avere quella data abilità che ci permette di svolgere il nostro lavoro? Ma soprattutto dov’è il nostro cuore dopo essere usciti da questa chiesa?


sabato 10 ottobre 2020

SIMILE AL REGNO: La scelta dell’anima “scelta”

Commento al vangelo della XXVIII Domenica TO/A - 11 ottobre 2020

 

Dal Vangelo di Matteo (22,1-14)

In quel tempo, Gesù, riprese a parlare con parabole [ai capi dei sacerdoti e ai farisei] e disse: 

«Il regno dei cieli è simile a un re, che fece una festa di nozze per suo figlio. Egli mandò i suoi servi a chiamare gli invitati alle nozze, ma questi non volevano venire. 

Mandò di nuovo altri servi con quest’ordine: Dite agli invitati: “Ecco, ho preparato il mio pranzo; i miei buoi e gli animali ingrassati sono già uccisi e tutto è pronto; venite alle nozze!”. Ma quelli non se ne curarono e andarono chi al proprio campo, chi ai propri affari; altri poi presero i suoi servi, li insultarono e li uccisero. Allora il re si indignò: mandò le sue truppe, fece uccidere quegli assassini e diede alle fiamme la loro città. 

Poi disse ai suoi servi: “La festa di nozze è pronta, ma gli invitati non erano degni; andate ora ai crocicchi delle strade e tutti quelli che troverete, chiamateli alle nozze”. Usciti per le strade, quei servi radunarono tutti quelli che trovarono, cattivi e buoni, e la sala delle nozze si riempì di commensali. 

Il re entrò per vedere i commensali e lì scorse un uomo che non indossava l’abito nuziale. Gli disse: “Amico, come mai sei entrato qui senza l’abito nuziale?”. Quello ammutolì. Allora il re ordinò ai servi: “Legatelo mani e piedi e gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti”. 

Perché molti sono chiamati, ma pochi eletti».


Commento a cura di Elisabetta Corsi da Fermo

Ὡμοιώθη ἡ βασιλεία τῶν οὐρανῶν ἀνθρώπῳ βασιλεῖ (omoiòthè e basiléia tòn uranòn anthròpo basiléi): “Simile è il regno dei cieli ad un uomo-re”. La precisione semantica di questa prima frase delinea con mirabile pregnanza la sostanza dell’analogia che Gesù traccia per ricomporre il nostro cielo interiore al Cielo divino. Il celeste spazio della coscienza ha un Re, intorno al quale si costituisce un regno che non ha la sua sede in un effimero potere terreno – inutile e vanitoso possedimento del mondo –, ma che si forma nell'invisibile spazio dello spirito.

Per amore nei confronti della creatura-uomo, il Re non rimane nella sua sede celeste, ma discende e si fa uomo e diventa un ἀνθρώπῳ βασιλεῖ (anthròpo basilèi) un uomo-re. Incarnando la sua sostanza divina nella carnalità umana, Dio-Re ricostituisce il fratturato legame che lo separa dall'uomo, strappando τὸ ὄνειδος τοῦ λαοῦ (tò òneidos tù laù), “il disonorevole velo del popolo”. Il rapporto fra Dio e il suo popolo è separato da una discrepanza che non permette all’uomo di vedere il suo Re e di riconoscere in Lui il proprio Padre. Solo per mezzo del Figlio, l’uomo, in quanto figlio, riconosce l’unica vera relazione che può unirlo all’amore del Padre, rimuovendo ciò che lo distanzia ed estranea dall’azione divina.

Il re prepara γάμους τῷ υἱῷ αὐτοῦ, (gàmos tò uiò autù) “a suo figlio le nozze”. La sposa del figlio del re, ad una prima lettura non precisata, è in realtà menzionata in tutto il passo evangelico. Infatti, il re ἀπέστειλεν τοὺς δούλους αὐτοῦ καλέσαι τοὺς κεκλημένους εἰς τοὺς γάμους (apèsteilen tùs dùlos autù kalésai tùs keklémenous eis tùs gamùs), letteralmente “mandò i suoi servi a chiamare i chiamati alle nozze”. Dapprima, Dio chiama l’Israele biblica e spirituale del “popolo eletto” - o meglio, il “popolo chiamato” che, però, “non vuole giungere” e che, anzi, al secondo richiamo del re e al compimento del sacrificio nuziale, insulta ed uccide gli schiavi, martiri-testimoni dell’amore di Dio.

L’invito del Re, poi, si estende: i “chiamati” divengono πάντας οὓς εὗρον (pàntas ùs èuron), letteralmente “tutti quanti (gli schiavi) trovano”, degni o indegni del banchetto nuziale. Costoro divengono ἀνακειμένων (anakeiménon), letteralmente “coloro che si sdraiano per cibarsi delle vivande del banchetto”, del banchetto eucaristico. Ma lo sguardo attento del re si posa su un “uomo non rivestito del vestito nuziale”. Interrogato sul perché di una tale mancanza, ὁ δὲ ἐφιμώθη, (o dè efimòthe), “l’uomo si azzittisce forzatamente”, letteralmente, per effetto della “museruola” che gli copre la bocca. Come conseguenza di una forzata prigionia, lo spirito ammutolisce di fronte alla chiamata e perde la forza di dire “sì” allo sposo celeste. Senza l’abito nuziale, “svestita di Cristo”, l’anima, da “chiamata” non può divenire “scelta”, non può divenire eklekté, parte viva, con la sua propria vita, della vita dell’ekklesìa, la vera eterna sposa del Cristo.


venerdì 2 ottobre 2020

Per chi?

 Domenica 4 ottobre 2020 - XXVII Dom TO/A


Dal Vangelo di Matteo (21,33-43) 

In quel tempo, Gesù disse ai capi dei sacerdoti e agli anziani del popolo: 

«Ascoltate un’altra parabola: c’era un uomo, che possedeva un terreno e vi piantò una vigna. La circondò con una siepe, vi scavò una buca per il torchio e costruì una torre. La diede in affitto a dei contadini e se ne andò lontano. 

Quando arrivò il tempo di raccogliere i frutti, mandò i suoi servi dai contadini a ritirare il raccolto. Ma i contadini presero i servi e uno lo bastonarono, un altro lo uccisero, un altro lo lapidarono. Mandò di nuovo altri servi, più numerosi dei primi, ma li trattarono allo stesso modo. 

Da ultimo mandò loro il proprio figlio dicendo: “Avranno rispetto per mio figlio!”. Ma i contadini, visto il figlio, dissero tra loro: “Costui è l’erede. Su, uccidiamolo e avremo noi la sua eredità!”. Lo presero, lo cacciarono fuori dalla vigna e lo uccisero. 

Quando verrà dunque il padrone della vigna, che cosa farà a quei contadini?». 

Gli risposero: «Quei malvagi, li farà morire miseramente e darà in affitto la vigna ad altri contadini, che gli consegneranno i frutti a suo tempo». 

E Gesù disse loro: «Non avete mai letto nelle Scritture: “La pietra che i costruttori hanno scartato è diventata la pietra d’angolo; questo è stato fatto dal Signore ed è una meraviglia ai nostri occhi”?

Perciò io vi dico: a voi sarà tolto il regno di Dio e sarà dato a un popolo che ne produca i frutti».


COMMENTO a cura di Benedetta Dui da Jesi

È affascinante la cura e il cuore che Dio mette nel fare le cose: piantò una vigna. La circondò con una siepe, vi scavò una buca per il torchio e costruì una torre. Ed è commovente la fiducia che dimostra nei confronti dei contadini (nei quali ci possiamo riconoscere), chiamandoli a lavorare quella stessa vigna. Addirittura si allontana, non perché non gliene importi più niente, ma perché solo quando qualcuno ci affida qualcosa di importante percepiamo che si fida davvero di noi e non ci sta prendendo in giro. Già questo aspetto ci fa meditare e ci fa chiedere: Che cosa o chi mi ha affidato Dio perché io me ne prenda cura? 

Ma questa parabola scende più in profondità e porta alla luce un altro forte interrogativo: Ma per chi mai pensavano di lavorare quei contadini? E noi invece? Nelle nostre parrocchie, nelle comunità, nelle fraternità, nel volontariato, al lavoro, all'università e in tutti quei luoghi in cui Dio ci chiama… per chi veramente facciamo le cose?

Forse, come i contadini della parabola, a volte anche noi agiamo solo per noi stessi e finiamo col credere di essere padroni di cose e persone e diventiamo adoratori di una logica di possesso, di potere e di prepotenza, che non può minimamente coincidere con la logica di Dio che è amore gratuito.

Come ci insegna San Francesco d’Assisi: “Il contrario dell’amore non è l’odio ma il possesso”, parole molto care a Chiara Corbella Petrillo che scriveva: “Se starai amando veramente, te ne accorgerai dal fatto che nulla ti appartiene veramente, perché tutto è dono”. In verità al Padre interessa soprattutto che compiamo la nostra missione con amore: questo è il frutto più bello e buono che possiamo produrre! Perciò ha donato a noi Gesù, Suo Figlio: perché impariamo come si fa ad amare su questa terra. 


sabato 26 settembre 2020

Abbà, Padre!

Domenica 27 settembre 2020 - XXVI Dom TO/A  


Dal Vangelo di Matteo (21,28-32)

In quel tempo, Gesù disse ai capi dei sacerdoti e agli anziani del popolo: «Che ve ne pare? Un uomo aveva due figli. Si rivolse al primo e disse: “Figlio, oggi va’ a lavorare nella vigna”. Ed egli rispose: “Non ne ho voglia”. Ma poi si pentì e vi andò. Si rivolse al secondo e disse lo stesso. Ed egli rispose: “Sì, signore”. Ma non vi andò. Chi dei due ha compiuto la volontà del padre?». Risposero: «Il primo».

E Gesù disse loro: «In verità io vi dico: i pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio. Giovanni infatti venne a voi sulla via della giustizia, e non gli avete creduto; i pubblicani e le prostitute invece gli hanno creduto. Voi, al contrario, avete visto queste cose, ma poi non vi siete nemmeno pentiti così da credergli»


COMMENTO

“Qual è la volontà del padre?” A leggere rapidamente questo Vangelo la risposta sembra essere abbastanza evidente: andare a lavorare nella vigna. E’ una risposta quasi automatica per noi che siamo immersi nella cultura del “fare”. Ma se ci poniamo una seconda domanda: a Dio, Padre, cosa sta più a cuore:  l’essere o il fare? Essere figlio o fare l’operaio? Allora tutto assume un nuovo orizzonte.

Difatti la mia attenzione è stata rapita, più che dal comportamento, dalle risposte dei due figli: il primo: “Non ne ho voglia”, il secondo: “Si, signore”. Il primo mostra al padre tutti i suoi sentimenti, le sue titubanze, i suoi dubbi in atteggiamento filiale, come spesso accade nelle nostre famiglie per le faccende domestiche: “Non ho voglia di fare questo o quello”.

Il secondo ha un tipo di obbedienza di stampo quasi militare: “Si, signore”, un’obbedienza di facciata tanto da non concretizzarsi nella realtà. Il primo dando la risposta negativa si apre alla possibilità di un pentimento, di una conversione, di un cambiamento di idea, in poche parole mette in gioco la sua libertà, la libertà del cuore inteso come totalità dell’essere, davanti alla proposta del Padre.

Il secondo, invece, è come se si chiudesse nella sua giustizia formale, ha dato la risposta giusta ma il suo cuore è un cuore da servo, forse abitato dalla paura, da operaio più che da figlio, ricorda un po’ il fratello maggiore della parabola del padre misericordioso. Il primo vede nel padre, un padre, il secondo vede nel padre, un padrone. Anche da qui passa la nostra conversione: entrare in relazione con un padre e non con un padrone e se questa fosse “la volontà di Dio”?


venerdì 11 settembre 2020

Non per forza ma solo per amore!

 Commento al Vangelo della XXIV Domenica TO/A - 13 settembre 2020


Dal Vangelo di Matteo (18,21-35)

In quel tempo, Pietro si avvicinò a Gesù e gli disse: «Signore, se il mio fratello commette colpe contro di me, quante volte dovrò perdonargli? Fino a sette volte?». E Gesù gli rispose: «Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette.

Per questo, il regno dei cieli è simile a un re che volle regolare i conti con i suoi servi. Aveva cominciato a regolare i conti, quando gli fu presentato un tale che gli doveva diecimila talenti. Poiché costui non era in grado di restituire, il padrone ordinò che fosse venduto lui con la moglie, i figli e quanto possedeva, e così saldasse il debito. Allora il servo, prostrato a terra, lo supplicava dicendo: “Abbi pazienza con me e ti restituirò ogni cosa”. Il padrone ebbe compassione di quel servo, lo lasciò andare e gli condonò il debito.

Appena uscito, quel servo trovò uno dei suoi compagni, che gli doveva cento denari. Lo prese per il collo e lo soffocava, dicendo: “Restituisci quello che devi!”. Il suo compagno, prostrato a terra, lo pregava dicendo: “Abbi pazienza con me e ti restituirò”. Ma egli non volle, andò e lo fece gettare in prigione, fino a che non avesse pagato il debito.

Visto quello che accadeva, i suoi compagni furono molto dispiaciuti e andarono a riferire al loro padrone tutto l’accaduto. Allora il padrone fece chiamare quell’uomo e gli disse: “Servo malvagio, io ti ho condonato tutto quel debito perché tu mi hai pregato. Non dovevi anche tu aver pietà del tuo compagno, così come io ho avuto pietà di te?”. Sdegnato, il padrone lo diede in mano agli aguzzini, finché non avesse restituito tutto il dovuto.

Così anche il Padre mio celeste farà con voi se non perdonerete di cuore, ciascuno al proprio fratello».


COMMENTO a cura di fra Damiano Angelucci da Fano

Tre aspetti da sottolineare:

Il primo: Nella parabola raccontata da Gesù c’è un padrone che rimette un debito enorme, circa 60 milione di volte quella che poteva essere la paga giornaliera di un bracciante. Da notare che egli non pone condizioni al suo gesto. Esaudisce la preghiera perché è implorato, e basta.

Secondo aspetto: il servo, che poi viene detto malvagio, esige di essere rimborsato di un debito di cento denari (solo 100 volte la paga giornaliera di un bracciante!) e questo non per riuscire a pagare il suo già cancellato, ma solo per la durezza del suo cuore. E qui c’è il salto logico della parabola inventata da Gesù. Può un creditore pentirsi di avere condonato un debito, e tornare ad esigerlo? Normalmente no. Qui entriamo nella logica della pietà di Dio Padre. “Non dovevi anche tu aver pietà del tuo compagno, così come io ho avuto pietà di te?” Non siamo più sul piano di un obbligo giuridico, ma di un obbligo di riconoscenza, di un obbligo del cuore. Ecco perché la durezza del cuore impedisce il “godimento” di una Grazia già elargita, quanto al donatore.

C’è inoltre un terzo aspetto, altrettanto decisivo. Il servo duro di cuore viene consegnato agli aguzzini “finché non avesse restituito tutto il dovuto”. Chi potrà aiutare questo servo malvagio a rifondere una cifra così esorbitante, aggravata dalla colpa dell’ingratitudine? Fuor di metafora, anche per lui non si estinguerà la possibilità di un intervento da parte dell’unico salvatore, Cristo Gesù. Questi è l’unico che ha la capacità di rimettere, per noi e al posto nostro, anche la colpa più grave, apparentemente (per gli uomini) insanabile.


Una proposta per meditare semi di sapienza evangelica gettati da un grande uomo di cultura che sapeva di vivere in un mondo allergico alla fede

 L'immagine può contenere: il seguente testo "Il Signore degli Anelli: la proposta di J.R.R Tolkien Relatore: Mauro Toninelli (autore di "Colui che raccontò la Grazia") musicale: Glindar Accompagnamento Vincenzo Pasquarella Esposizione delle opere di: Bogdan Craciun 12settembre.ore 16.30 Convento dei frati cappuccini, Alta (MC) Contrada Grazie 17, Civitanova Ingresso libero distanziamento sociale, l'ingresso Ai fini del rispetto delle norme anti- Covid 19 sarà consentito fino ad esaurimento posti (max 160) con mascherina obbligatoria. L'evento si terrà all' aperto e andrà in diretta sulla Radio La Voce di Arda sulla piattaforma di Spreaker) CAVALIERI Del MARK PASTORALE PASTORALFCOVANIDEPRATT DE FRATI CAPPUCCINII MARCHE Tolkieniani Italiani"

sabato 29 agosto 2020

Se la morte ci troverà vivi

di Erika Grasso (Giovani Fraternità San Francesco Pesaro)


 XXII domenica del TO/A – 30 agosto 2020





TESTO (Mt 16,21-27)

In quel tempo, Gesù cominciò a spiegare ai suoi discepoli che doveva andare a Gerusalemme e soffrire molto da parte degli anziani, dei capi dei sacerdoti e degli scribi, e venire ucciso e risorgere il terzo giorno. 

Pietro lo prese in disparte e si mise a rimproverarlo dicendo: «Dio non voglia, Signore; questo non ti accadrà mai». Ma egli, voltandosi, disse a Pietro: «Va’ dietro a me, Satana! Tu mi sei di scandalo, perché non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini!».

Allora Gesù disse ai suoi discepoli: «Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà. 

Infatti quale vantaggio avrà un uomo se guadagnerà il mondo intero, ma perderà la propria vita? O che cosa un uomo potrà dare in cambio della propria vita? 

Perché il Figlio dell’uomo sta per venire nella gloria del Padre suo, con i suoi angeli, e allora renderà a ciascuno secondo le sue azioni».


COMMENTO

La proposta che Gesù fa ad ognuno di noi è quella di seguirlo, perché quello che vuole è che noi siamo felici.

In questo Vangelo sembra ci stia dando le istruzioni pratiche per farlo: “se qualcuno vuole venire dietro me, rinneghi sé stesso, prenda la sua croce e mi segua”.

Per seguirlo dovremmo rinnegare noi stessi e prendere la nostra croce. Lui, il nostro creatore, ci chiede di rinnegare ciò che siamo.

Gesù ci propone di vedere le cose della nostra vita da un punto di vista nuovo, il Suo. Ci chiede di dire no al modo umano con cui affrontiamo la vita, strutturiamo i nostri pensieri e compiamo le nostre scelte. Ciò che noi facciamo istintivamente è rinchiudere tutto ciò che ci accade in una stanza, spegnere la luce e chiudere la porta.  Pensiamo di mettere un punto alle cose e voltare pagine e ripartire come se nulla fosse e fare vedere al resto del mondo quanto siamo bravi e perfetti. Perché la nostra società ci vuole così. Non ci accorgiamo però che tutto quello che c’è in quella stanza, anche se la porta è chiusa, pesa. È dentro di noi. Noi siamo la nostra storia, le nostre paure, le ferite avute e mai guarite. Tutto ciò che è rinchiuso in quella stanza influenza la nostra vita. Diventa, inconsciamente, la base che struttura i nostri pensieri e che muove le nostre scelte e i nostri progetti.

Gesù, però, ci dice che per essere felici dobbiamo abbandonare questi progetti fondati sulle nostre fragilità umane che ci ripiegano su noi stessi, ci fanno guardare solo in basso e ci impediscono di alzare lo sguardo.

“chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà”

Il seme muore per fare crescere la piantina e portare poi frutto. Noi siamo quel seme. Solo lasciando morire il nostro io umano possiamo dare spazio all'azione di Dio nella nostra vita, fare sì che sia Lui a condurre. Solo così possiamo trovare la nostra felicità vera, solo in Lui. 

Allora smettiamo di guardare solo i nostri piedi e concentrarci sulle nostre forze. Alziamo lo sguardo verso Lui e apriamo la porta di quella stanza. Lasciamo entrare il suo amore. Lui ama tutto di noi anche quello che rinchiudiamo. Gesù vuole che tocchiamo i nostri limiti e le nostre debolezze, vuole che curiamo le nostre ferite, vuole che facciamo i conti con le nostre sofferenze, vuole che accettiamo la nostra storia.

Vuole che abbracciamo “le nostre croci”, le prendiamo in spalla, le portiamo insieme a Lui e lo seguiamo.

venerdì 21 agosto 2020

La potenza divina nella fragilità umana

di Elisabetta Corsi da Fermo, redazione on line Le Grain de blé 


XXI Domenica del TO anno A – 23 agosto 2020

Testo (Mt 16,13-20)

In quel tempo, Gesù, giunto nella regione di Cesarèa di Filippo, domandò ai suoi discepoli: «La gente, chi dice che sia il Figlio dell’uomo?». Risposero: «Alcuni dicono Giovanni il Battista, altri Elìa, altri Geremìa o qualcuno dei profeti».

Disse loro: «Ma voi, chi dite che io sia?». Rispose Simon Pietro: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente».

E Gesù gli disse: «Beato sei tu, Simone, figlio di Giona, perché né carne né sangue te lo hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli. E io a te dico: tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le potenze degli inferi non prevarranno su di essa. A te darò le chiavi del regno dei cieli: tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli».

Allora ordinò ai discepoli di non dire ad alcuno che egli era il Cristo.


Commento

Circoscrivere nel limitato confine della parola umana quanto della Parola si imprime nella coscienza è evidentemente impossibile, ma possibile rimane soffermarsi su qualche intuizione per lasciare spazio alla meditazione.

In primo luogo, la prima domanda di Gesù ai suoi discepoli, in una traduzione radicata al testo greco d’origine, così reciterebbe: “Chi dicono gli uomini che sia il figlio dell’uomo?”. Il soggetto della frase interrogativa è posto al centro, dislocato rispetto alla posizione iniziale che di solito spetta al soggetto di una frase e lascia spazio al pronome interrogativo tìna, “chi” che si identifica nella locuzione finale “figlio dell’uomo”. Se crediamo che ogni parola della Scrittura segua, ubbidiente, il tacito pronunciamento divino, allora saremo sicuri che neppure una virgola perderà il suo senso in un caotico disegno del “fato”. 

Ma per comprendere a pieno la domanda di Gesù, dobbiamo prima comprendere su quali echi dell’Antica Scrittura poggia l’espressione “figlio dell’uomo”. Se pur leggermente mutata nella sua forma, questa occorre per la prima volta nell'Antico Testamento, in Gen. 11, 5 quando “il Signore scese a vedere la città e la torre che i figli degli uomini stavano costruendo”; Dio vide fin dove la superbia dell’uomo si era innalzata e pose un limite all'altezza della torre babelica, confondendo le lingue dei costruttori e sciogliendo l’accordo d’origine. 

Guardando più nel dettaglio, però, nell'Antica Scrittura, l’espressione trova la maggior parte delle sue occorrenze nel libro di Ezechiele, in particolare, in Ez. 2, 3-5: dice, infatti, il Signore, rivolgendosi al profeta: “Figlio dell'uomo, io ti mando ai figli d'Israele, a una razza di ribelli, che si sono rivoltati contro di me. […] Ascoltino o non ascoltino - dal momento che sono una genìa di ribelli -, sapranno almeno che un profeta si trova in mezzo a loro”.

Il “figlio dell’uomo” – di cui Ezechiele è prefigurazione – è, dunque, colui che prendendo su di sé i peccati degli uomini, riconduce, noi, figli, al Padre, redimendoci attraverso la propria ubbidienza e l’annientamento di sé; un annientamento che giunge fino alla morte. In questo trova senso la domanda di Gesù: una domanda conscia del suo proprio Sacrificio: “Gli uomini (progenie di quei figli dell’uomo che innalzarono la torre della superbia e a cui offro eternamente la Mia Sostanza) chi dicono che sia il figlio dell’uomo (l’Innocente che, come Figlio, sempre ubbidisce al volere paterno)?”.

La risposta di Pietro si interseca mirabilmente con la domanda di Gesù, e così recita in una traduzione letterale del passo: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio che vive”. Riconoscendo Cristo, Pietro riconosce Dio, la Vita che vive e vivifica le sue creature. Pietro ama Gesù e salda il suo cuore in Cristo-Pietra della Chiesa, divenendo fondamenta dell’edificio ecclesiale; un edificio che prende forza dall'umiltà dei suoi servi, ad immagine e somiglianza di quel Custode celeste che, solo, può allontanare la morte affinché “le forze degli inferi” non prevalgano su di essa.


sabato 15 agosto 2020

Solo l'amore è creativo

 di CAROLINA PERFETTI 


XX Domenica del TO/A - 16 agosto 2020 -  


Dal Vangelo di Matteo (15,21-28)

In quel tempo, partito di là, Gesù si ritirò verso la zona di Tiro e di Sidòne. Ed ecco una donna Cananèa, che veniva da quella regione, si mise a gridare: «Pietà di me, Signore, figlio di Davide! Mia figlia è molto tormentata da un demonio». Ma egli non le rivolse neppure una parola.
Allora i suoi discepoli gli si avvicinarono e lo implorarono: «Esaudiscila, perché ci viene dietro gridando!». Egli rispose: «Non sono stato mandato se non alle pecore perdute della casa d’Israele».
Ma quella si avvicinò e si prostrò dinanzi a lui, dicendo: «Signore, aiutami!». Ed egli rispose: «Non è bene prendere il pane dei figli e gettarlo ai cagnolini». «È vero, Signore – disse la donna –, eppure i cagnolini mangiano le briciole che cadono dalla tavola dei loro padroni».
Allora Gesù le replicò: «Donna, grande è la tua fede! Avvenga per te come desideri». E da quell'istante sua figlia fu guarita



COMMENTO 

Una donna cananea, che inizia a gridare. Il Vangelo di oggi inizia proprio così, con un grido: Signore, abbi pietà di me. La parola pietà deriva dal latino pietas, che significa proprio avere un sentimento di commiserazione per i mali altrui, compassione (etimo.it), ed è proprio questo quello che la donna chiede al Signore, di riconoscere i suoi mali e di averne riguardo, di comprendere il suo dolore e di salvare sua figlia. È un atto di consegna quello che questa mamma sta facendo; a Gesù affida il suo bene più grande, il dolore che sta provando, e proprio perché riconosce l’autorità di Gesù, e sa che lui solo potrà salvarla, si affida a lui. Mi colpisce molto la figura di questa madre nel Vangelo, è davvero sorprendente vedere come l’amore supera ogni cosa, come disse S. Massimiliano Kolbe, è una forza creativa.

 L’amore di una madre credo che si possa descrivere proprio come in questo vangelo, creativo, dolorante e desideroso di vedere salva la propria figlia, perché la donna va da Gesù non per lei, ma per sua figlia. L’amore non ci chiede di fermarci a noi, ma ci apre all’altro, al fratello che soffre e ci chiede di soffrire insieme. 

Nonostante tutto, Gesù non le rivolge la parola, sembra quasi che non abbia compreso il dolore, ma com’è possibile? Davvero Gesù, il figlio di Dio, non prova compassione per il suo popolo? 

Ma la madre non si arrende, perché l’urgenza della salvezza ci chiama ad andare oltre tutto, oltre le nostre paure, oltre i rifiuti, oltre le certezze, finché la sua richiesta non provoca una risposta in Gesù, scostante, brusca, quasi indelicata. 

Quante volte eravamo noi al posto della donna cananea? Quante volte abbiamo vissuto le risposte di Gesù scostanti e brusche? 

Mi capita che risuoni nel mio cuore questa domanda: Mi ami tu, Gesù? Quello che lui chiese a Pietro, lo chiedo io a lui. 

Quante volte dubitiamo del suo amore? E ci fermiamo al dubbio, smettiamo di  lottare, non disturbiamo Gesù come la donna cananea, perché in fondo ci fermiamo alle nostre emozioni, alle nostre piccole aspettative deluse, e non riusciamo a vedere oltre.

La donna cananea, diversamente, non smette di avere fede, e continua ad implorare Gesù, arrivando a dire: eppure i cagnolini mangiano le briciole che cadono dalla tavola dei loro padroni ( Mt 15,27). Si riconosce la fede della donna proprio da questa frase, si riconosce affamata, non ricerca cose grandi, si accontenta perché lei sa che un granello di senape può spostare le montagne. 

Ed è proprio qui che Gesù riconosce la fede grande di questa donna, riconosce che ha davvero incontrato Gesù nel profondo. 

Perché per incontrarlo, per incrociare i suoi occhi densi di amore che dicono: “Si, ti amo talmente tanto da morire per te”, non servono grandi esperienze, pellegrinaggi, penitenze. Serve un cuore aperto, un incessante richiesta, vera e sincera, proprio come la donna. 

Gesù ci può salvare, solo se noi glielo permettiamo.


venerdì 7 agosto 2020

La fede oltre il buio

 di Benedetta Dui


XIX Domenica Tempo Ordinario - anno A – 9 agosto 2020

[Dopo che la folla ebbe mangiato], subito Gesù costrinse i discepoli a salire sulla barca e a precederlo sull’altra riva, finché non avesse congedato la folla. Congedata la folla, salì sul monte, in disparte, a pregare. Venuta la sera, egli se ne stava lassù, da solo.
La barca intanto distava già molte miglia da terra ed era agitata dalle onde: il vento infatti era contrario. Sul finire della notte egli andò verso di loro camminando sul mare. Vedendolo camminare sul mare, i discepoli furono sconvolti e dissero: «È un fantasma!» e gridarono dalla paura. Ma subito Gesù parlò loro dicendo: «Coraggio, sono io, non abbiate paura!».
Pietro allora gli rispose: «Signore, se sei tu, comandami di venire verso di te sulle acque». Ed egli disse: «Vieni!». Pietro scese dalla barca, si mise a camminare sulle acque e andò verso Gesù. Ma, vedendo che il vento era forte, s’impaurì e, cominciando ad affondare, gridò: «Signore, salvami!». E subito Gesù tese la mano, lo afferrò e gli disse: «Uomo di poca fede, perché hai dubitato?».
Appena saliti sulla barca, il vento cessò. Quelli che erano sulla barca si prostrarono davanti a lui, dicendo: «Davvero tu sei Figlio di Dio!».


COMMENTO

Quante volte viviamo anche noi la stessa esperienza dei dodici! Gesù ci chiede di fare qualcosa nella nostra quotidianità e noi, come i discepoli, ci fidiamo di Lui, saliamo sulla barca e gli obbediamo, memori delle meraviglie che Gli abbiamo visto compiere. Forse ci aspettiamo che vada tutto bene, che scorra tutto liscio perché stiamo facendo la Sua volontà e invece… si scatena una tempesta. Ci ritroviamo in mezzo al mare, è notte, e per di più Gesù non si vede e chissà se arriva.

Scopriamo allora che la fede non è fatta solo di presenza e luce, ma anche di assenza e buio, i quali però contribuiscono a rafforzarla. È certo più facile essere vinti dalle paure quando stiamo attraversando le avversità della vita: non riusciamo nemmeno più a riconoscere il Signore che scambiamo per uno spettro, e che invece ci viene incontro camminando sopra, domando la nostra paura.

Dinanzi a occhi ciechi, Gesù si appella alle orecchie: “Coraggio, sono io, non abbiate paura!”. Ci conforta, parla ai cuori immersi nella notte della fede, pronuncia il suo vero nome, professa la sua divinità: “Io (ci) sono” è infatti il nome di Dio.

Pietro si fa avanti, chiede un’ulteriore conferma e rischia. Immagino la sua camminata sulle acque sicura, salda, perché il suo sguardo doveva essere fisso su quello di Gesù: mi ricorda un po’ un bambino che compie i primi passi e non guarda dove mette i piedi, ma tiene i suoi occhi ben fissi sugli occhi ora della mamma ora del babbo, i quali un po’ a distanza lo aspettano, ricambiandolo con uno sguardo colmo di amore e fiducia. E se mai la nostra fragilità ci portasse a distogliere gli occhi da Lui e le paure dovessero riacquistare forza trascinandoci verso il basso, l’importante è gridare forte come Pietro: “Signore salvami!”, e lasciarci afferrare dalle pronte mani di Cristo.

Il paterno rimprovero che alla fine Egli rivolge a Pietro mi spinge ad interrogarmi su tre aspetti: mi sto fidando ciecamente di Gesù? Quali paure talvolta vincono la mia fiducia in Lui? Quale tempesta sono chiamata ad attraversare conservando la fede?