giovedì 2 maggio 2013

LasciaMi parlare!

Emanuela Mori



Per inclinazione e per formazione mi sono spesso interessata al linguaggio; perciò mi ha colpita l'ultima lezione universitaria sulle funzioni del linguaggio, e quindi su alcuni aspetti della Rivelazione, poiché Gesù è Parola di Dio fatta carne. Il linguaggio ha una funzione informativa, per cui si trasmettono dei contenuti, delle verità; una funzione relazionale, per cui il Verbo di Dio si fa prossimo e cerca la nostra amicizia; una funzione espressiva, per cui Egli manifesta la propria interiorità, rende esterno il proprio cuore. Gesù è il Rivelatore che esprime il cuore di Dio, è la Sua poesia anche quando sta in silenzio. Vediamo come la Parola di Dio rivela il cuore dell'Eterno attraverso il verbo lasciare.

L'italiano lasciare deriva dal latino laxare, che vuol dire allargare, allentare, sciogliere, liberare. Il contrario potrebbe essere opprimere, stringere, soffocare: come una cravatta o una cintura troppo stretta, che non fanno respirare liberamente.

Il verbo italiano richiama alla mente vari contesti biblici. Lasciare infatti è il verbo dell'esorcismo e della guarigione: “la febbre la lasciò”, “la febbre lo ha lasciato”, “il diavolo lo lasciò e gli angeli lo servivano”. Il diavolo, il peccato, la malattia sono le “oppressioni” per eccellenza, di cui Dio è liberatore. Lasciare ci rivela la misericordia di Dio: del fico che non dà frutti, la Parola di Dio dice “lascialo ancora quest'anno, finché gli avrò zappato attorno e avrò messo il concime. Vedremo se porterà frutti per l'avvenire, se no lo taglierai”; così, del padrone il cui servo non aveva di che restituire il debito, dice che “ebbe compassione, lo lasciò andare e gli condonò il debito”. Lasciare è anche il verbo dell'accoglienza: “lasciate che i bambini vengano a me, perché a chi è come loro appartiene il Regno di Dio”.

Ma prima di questi esempi, il verbo richiama immediatamente alla memoria scenari vocazionali, in cui si lascia ciò che opprime e impedisce di seguire Dio. «Pietro disse: “Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito». Gesù gli rispose: «In verità io vi dico: non c'è nessuno che abbia lasciato casa o fratelli o sorelle o madre o padre o figli o campi per causa mia e per causa del Vangelo, che non riceva già ora, in questo tempo, cento volte tanto in case e fratelli e sorelle e madri e figli e campi, insieme a persecuzioni, e la vita eterna nel tempo che verrà”».

Lasciare sembra il verbo della perdita: chi lascia perde qualcosa, ed è vero. Ma a questo proposito ci fa riflettere il Vangelo secondo la versione latina della Vulgata. Finora ho ricercato il verbo lasciare nella versione italiana, ma in nessuno dei contesti che ho citato è presente quel verbo latino da cui deriva, il verbo laxare. Laxare è invece presente nell'episodio della pesca di Pietro, il quale dice: “sulla tua parola laxabo le reti”. Chi getta le reti nel mare della sua parola, ne trova una ricchezza che non si aspettava. Non lascia, non perde, ma acquista davvero “il centuplo”: infatti il cuore dell'uomo è un enigma per sé stesso, ma la sua Parola può discernere e rivelare la verità che c'è dentro di noi. Basta che glielo... lasciamo fare.

Cosa lasciare? Cosa mi stringe, mi opprime, mi soffoca e non mi fa respirare l'aria buona del Vangelo, l'aria della libertà che viene dalla Verità? A volte la nostra stessa volontà caparbia si ostina disordinatamente; ma è quando smettiamo di accanirci, quando lasciamo, quando “allentiamo la presa” e facciamo spazio a Lui che Lui può dire una parola sulla nostra vita e possiamo essere liberati. Il verbo lasciare, allora, è il verbo della fiducia in Dio.

E saremo consolati da una promessa, quella del suo “testamento”: “Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo io la do a voi”. È la promessa di una pace soprannaturale a chi ha lasciato che lo Spirito Santo plasmasse la sua vita. Ma Gesù non ci lascia solo lo Spirito e la sua Parola: ci lascia sé stesso in carne e ossa nell'Eucaristia; ci lascia il volto di un Dio buono come il pane.

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