lunedì 21 ottobre 2013

Spremere un limone rachitico ovvero parole senza succo!

di fra Sergio Lorenzini



Ad ogni ritiro che mi capita di vivere con adolescenti e giovani, raramente viene smentita la mia convinzione che il momento più difficile da vivere sia per loro il deserto, il momento del silenzio e del raccoglimento, dello stare soli con se stessi e con Dio per ascoltarsi e ascoltare, per connettersi con se stessi e scavare dentro la propria vita. E cerco di convincerli che in fondo un quarto d’ora si può fare, che è importante imparare a vivere momenti di silenzio, che ciò dà loro profondità ed equilibrio, che basta superare quell’iniziale smarrimento per accedere poi a una profondità gustosa e ricca.
Ci metto impegno e passione, li vedo annuire in maniera confusa, quasi non comprendano il senso della richiesta. Li capisco e faccio a posto loro la domanda: cosa significa fare silenzio nell’epoca della comunicazione? Non ci si può mica scollegare? Senza collegamento muoio, senza comunicazione non esisto. Io vivo sempre collegato! E, ahimè, li vedo partire a due a due o a gruppetti e rifugiarsi in qualche angolo, incapaci di scollarsi dagli altri per incollarsi veramente a se stessi. Quei pochi che mi hanno smentito, hanno gustato il deserto come il momento dalla bellezza più intensa e il silenzio come il luogo del vero ascolto. Hanno scoperto da dove nasce la parola quando la sentiamo vera. A questi pensieri mi hanno ricondotto le penetranti riflessioni di un libro che mi è capitato di leggere e che voglio condividere con voi, trascrivendole qui sotto. Magari avremo  deserti fertili. 

La domanda «come parlare di Dio oggi?», intesa come domanda di una comunicazione efficace, contiene due pregiudizi pesanti in materia di parola. Il primo è che il mio pensiero (e nel nostro caso, specialmente la fede) esista già precostituito al di fuori della parola stessa, mentre quest’ultima sarebbe soltanto un mezzo per esprimere tale pensiero, per spingerlo cioè fuori di me in direzione di un altro. Ma cosa sarebbe in me un pensiero inarticolato, informe, anteriore al logos e quindi indipendente dalla logica? Non si tratta più di pensiero, ma di una pappa affettiva. Siamo allora al livello del patetico, lacrimoso o arrabbiato, amaro o zuccheroso, entusiasta o indignato.

Quando uno crede che il pensiero esista al di fuori della parola e che la parola sia soltanto un mezzo per esprimere tale pensiero, ben presto la cosa importante non è più ciò che pensa, ma ciò che sente. Il benefattore democratico sembra organizzarti uno spazio di dialogo ordinandoti: «Esprimiti!». In realtà ti impedisce di essere contemplativo o  meditativo. Ti organizza uno spazio solo per eruttare: «Fuori subito la tua opinione! I tuoi sentimenti, dai, di corsa! La tua reazione a caldo, perché il sondaggio esce fra poco! La verità non sta forse nella spontaneità?» Una tale generosità di ingiunzioni servirebbe a farti comprendere, escludendo però il tuo comprendonio. 

«Esprimiti» vuol dire: «Non raccoglierti!», «Non darti il tempo di riflettere», «Il tuo pensiero è già pronto all’uso, aspetta solo il microonde!». Ma cosa puoi tirar fuori in un attimo? Una piattezza di moda, un luogo comune che gira col vento. Non si tratta, del resto, di esprimere qualcosa, ma di esprimersi, di mettere cioè ben in vista tutto quello che ci passa per la testa – ma mi raccomando, nulla di troppo lungo da capire –. E identifichiamo questa «libertà di espressione» con una «libertà di pensiero», mentre invece è un’ingiunzione che ci fa rinunciare alla pazienza di ogni vero pensiero, al balbettio di ogni nuova parola.

Una licenza estrema di questo tipo coincide con la più implacabile e insidiosa delle censure: tutto ciò che non può essere ricondotto a slogan pubblicitario, ciò che non è effusione patetica, ciò che richiede la durata di una conversazione vera e propria, diventa assolutamente inudibile. Non appena la parola viene concepita come mezzo di espressione, diventa nello stesso tempo anche un mezzo di oppressione. Ti privano di una parola che sia luogo di riflessione attenta e così ti condannano ai riflessi condizionati. Ti esprimi senza aver raccolto, e per far ciò, spremi il tuo limone rachitico che non dà nessun succo per mancanza di un tempo in cui poter maturare all’ombra delle sue foglie. 

La parola concepita come mezzo di comunicazione si riduce a un cicaleccio: si comunica a vanvera senza aver concepito nulla prima, basta generare anche meno che vento, basta che sopra ci sia il proprio graffito in miniatura. Da qui viene il paradosso della nostra era: più sviluppiamo i mezzi di comunicazione e meno cose abbiamo da dirci.  (Fabrice Hadjadi, Come parlare di Dio oggi?)

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