sabato 23 marzo 2013

Sesso prima del matrimonio, anticoncezionali, convivenza: che male c'è?


Pubblichiamo le risposte alle tre domande più scottanti del nostro ultimo incontro delle Domande che scottano.


1 - Anche se una coppia vive in situazione di convivenza con il desiderio di realizzarsi nel matrimonio, deve considerare negativa l’opinione della Chiesa riguardo questi argomenti?

Come dicevamo nell’ultimo incontro, non bisogna fare di tutta l’erba un fascio. Non tutte le convivenze sono uguali: giusto per prendere i due estremi, un conto è scegliere la convivenza libera come condizione definitiva di vita, una scelta esplicitamente antimatrimoniale, altro conto è intendere la convivenza come una fase preparatoria e propedeutica al matrimonio.

Vista dall’esterno la situazione è identica – una coppia che vive sotto lo stesso tetto – ma la motivazione sottostante è di qualità diversa e diversamente va valutata.

Riguardo il primo caso, cioè la convivenza intesa come un’unione libera di fatto tra persone che convivono coniugalmente, senza che il loro vincolo abbia un pubblico riconoscimento né religioso, né civile, il Direttorio di pastorale familiare n. 227 (per chi volesse consultarlo, questo è il linkafferma che tali situazioni «sono in contrasto con il senso profondo dell’amore coniugale: esso, oltre a non essere mai sperimentazione e a comportare sempre il dono totale di sé all’altro, richiede per sua intima natura un riconoscimento e una legittimazione sociale e, per i cristiani, anche ecclesiale». 
Riguardo il secondo caso, cioè la convivenza preparatoria al matrimonio, la Chiesa ritiene che non sia la condizione ideale perché anticipa in maniera indebita una condivisione totale di vita senza un reciproco e totale sì, esplicitamente proferito. Nella vita quotidiana i due condividono tutto, senza però essersi promessi per sempre l’uno all’altro. La situazione pratica di convivenza non rispecchia a pieno la verità del rapporto di compromissione tra i due. Detto questo, nessuno deve spaventarsi o sentire il peso di un giudizio negativo sulla propria condizione, quanto piuttosto percepire l’invito a fare della situazione concreta in cui si trova, il punto di partenza per iniziare a camminare e crescere nell’amore. La Chiesa si fa compagna di viaggio di ciascuno per accompagnarci verso il culmine dell’amore.


2 - Nella vita religiosa ci si fidanza con il Signore, per anni si fa esperienza piena prima del sì: si vive in convento, in fraternità, si fa tutto quello che la vita religiosa richiede, provandosi in tutto. Nella vita di coppia invece, a quanto pare, non si può giocare a fare marito e moglie. A me sembra un’ipocrisia. Come il religioso non scommette alla cieca, anche la coppia ha bisogno di provarsi prima del grande sì.

Domanda intelligente e provocatoria, nella quale sembra di ascoltare l’eco delle invettive di Gesù contro l’ipocrisia dei farisei: «Guai anche a voi, dottori della Legge, che caricate gli uomini di pesi insopportabili, e quei pesi voi non li toccate nemmeno con un dito!» (Lc 11, 46). In fondo, si chiede: la Chiesa non usa due metri e due misure? Mentre per la vita religiosa è prevista una “convivenza” iniziale prima del sì definitivo dei voti perpetui, per la vita matrimoniale ciò non è considerato lecito. Applicando la stessa misura, si dovrebbe o vietare anche agli aspiranti alla vita religiosa di convivere nella comunità prima di professare pubblicamente la loro scelta, o permettere anche ai fidanzati di convivere prima del matrimonio. Perché, invece, la Chiesa differenzia i percorsi di preparazione alle due scelte? Ci sono delle differenze oggettive tra le due vocazioni, che motivano questa diversità? Proviamo a ragionarci un po’. Il matrimonio è la vocazione ordinaria di ogni essere umano, come l’attrazione corporea verso l’altro sesso ricorda a ciascuno di noi, mentre la vocazione religiosa è una chiamata straordinaria che il Signore rivolge ad alcuni per seguirlo più da vicino, adottando la sua stessa forma di vita. Nella vita di coppia ci si sposa e si giunge a una piena comunione di vita, a un rapporto interpersonale così forte e intimo da fare dei due «una carne sola», espressa con eloquenza fisica nell’unione dei corpi; nella vita religiosa le persone non si sposano tra loro (tant’è che la professione religiosa non è un sacramento) ma stabiliscono un legame di fratellanza che ha il suo centro non nei fratelli o nelle sorelle con cui si condivide la chiamata, ma nel Signore Risorto, che con il suo amore ha conquistato tutta la loro vita. Non ci si sposa con dei fratelli e delle sorelle, tant’è che non di rado capita che essi cambino comunità per cui occorre iniziare il rapporto interpersonale da zero, ma si dona interamente la propria vita al Signore a favore di quelle persone che egli vorrà mettere accanto sul cammino. Mentre nella via matrimoniale, i due sono rivolti sentimentalmente l’uno verso l’altro e il periodo di fidanzamento, anche senza la coabitazione, offre loro i mezzi sufficienti per verificare la fondatezza del loro amore, nella vita religiosa il cuore del consacrato è primariamente rivolto a Dio che lo chiama a condividere pienamente la vita del suo stesso Figlio, e la verità di questa chiamata non può essere affermata in maniera autonoma, “di testa propria”, ma richiede di essere riconosciuta anche dai fratelli che hanno intrapreso prima il cammino religioso. Ora, sarebbe piuttosto difficile aiutare a discernere la verità  di una tale chiamata “da casa”, cioè senza una quotidiana vicinanza che sveli una reale attitudine alla particolarità della vita religiosa, per cui diviene necessario predisporre un periodo di prova che aiuti a comprendere la reale fondatezza di questa chiamata.  


3 - Io penso che in qualche modo Dio metterà (se vuole) qualcuno nella mia vita, ma la mia domanda è: come farò a riconoscerla? Sarà una sensazione o dei fatti a farmelo capire?

Questa domanda esula dalla tematica specifica del nostro ultimo incontro, ma una breve risposta possiamo provare a darla lo stesso. È anzitutto molto bella la prospettiva che ciascuno di noi riceva la persona giusta come un dono preparatoci da Dio. È quanto accade ad Adamo che accoglie Eva come un dono “confezionato” dall’alto: «Il Signore Dio formò con la costola, che aveva tolta all’uomo, una donna e la condusse all’uomo» (Gn 2,22). Perché ci innamoriamo proprio di quella persona e non di un’altra? È solo una combinazione chimica, un’alterazione neurologica e cardiopatica che ci accade o lo si può pensare come un intervento di Dio sulla nostra vita, l’accensione di una scintilla, lo squarcio improvviso su un panorama meraviglioso per dare il primo passo alla grande traversata dell’amore? Personalmente, in una prospettiva di fede non trovò difficoltà a pensare il Signore impegnato a incrociare l’amore di due persone perché possano costruire insieme una storia che diventi specchio della sua bellezza e bontà, e per questo ritengo utile a chi crede pregare il Signore affinché gli “conduca” la sua Eva e gli dia occhi per riconoscerla. Come si riconosce la persona giusta? Non credo ci siano regole predefinite, o almeno io non le conosco, penso solo che anzitutto ci si innamora, e quando accade il fatto è inequivocabile e non abbisogna di dimostrazioni, poi da lì inizia il cammino di una scoperta e conoscenza profonda dell’altro, un cammino di prova da percorrere insieme per comprendere se ci sono i presupposti (non le certezze matematiche!) per fare il salto del grande sì, per dire a quella persona: voglio amarti per sempre e con tutto me stesso.

Nessun commento:

Posta un commento

Lasciate un commento